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Cosa hanno in comune PIETRO BRUNACCI del 1850 e GIUSEPPE GARIBALDI del 1862?

Ripeto, cos’hanno in comune il Giuseppe Garibaldi del 1862 ed il Pietro Brunacci del 1850?
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Pochi giorni fa ho trovato una relazione medica su, con mia grande sorpresa, una operazione avente avuto come attore principale Pietro Brunacci di Civitanova, cioè proprio il padre di quella Ifigenia Brunacci Majani, di cui ho scritto precedentemente.
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Oggi, domenica 11 settembre 2011, come strana coincidenza, trovo sul Corriere della Sera, un articolo che riguarda una operazione che ebbe come oggetto sempre la gamba e come attore principale Giuseppe Garibaldi.
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Pietro Brunacci di Civitanova ne fu operato nel 1851 e Giuseppe Garibaldi 11 anni dopo nel 1862. A Pietro Brunacci fu tagliata la gamba ed il suo chirurgo fu lieto di avergli salvato la vita, a Giuseppe Garibaldi il progresso medico, dopo soli 11 anni, salvò non solo la vita, ma anche la gamba.

Sia l’articolo che la relazione sono molto interessanti.
Per leggere l’articolo su Giuseppe Garibaldi, cliccare su: "Corriere della Sera".

Mentre, trascrivo qui di seguito tutta la relazione medica (pag. 174):
(cliccare sulle parole sottolineate per aprire i link collegati)
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Dal libro: IL RACCOGLITORE MEDICO; giornale di Medicina, Chirurgia e Scienze affini; diretto dal Dott. Luigi Malagodi, e compilato dal Dott. Camillo Franceschi; anno XIV, serie II, vol. IV. Fano 1851, tipografia di Giovanni Lana.

Siamo nel 1851 ed il paziente era Pietro Brunacci di Civitanova Marche, padre di Ifigenia Brunacci Majani, sposata con Giovanni Majani, Sindaco di Ripe San Ginesio.
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Di una amputazione di coscia per cancrena spontanea; narrazione del Dott. Luigi Golinelli Chirurgo Primario Condotto in Civitanova.
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A Luigi Malagodi Professore di Medicina Operatoria in Fano.
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Onorandissimo Collega,
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Cuncta prius tentanda; sed immedicabile
vulnus case recidendum , ne pars sincera trahatur.
Ovid. Metani.
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Nella fermezza che quanto sono per dire sia da Voi di buon grado accetto e riconosciuto utile alla scienza ed alla umanità, ho bene stimato scrivere di una amputazione di coscia eseguita per vasta cancrena secca, la quale non senza comune meraviglia ebbe felicissima terminazione.
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E meraviglia dovrà tornare a quelli dell’arte eziandio che rari fatti avendo ad enumerare fortunati di simil guisa, molto più porranno mente nel caso mio il quale e per l’età dell’individuo, e per la grande estensione del morbo che fu distruggitore di quasi tutto un arto addominale e per le profonde inveterate cagioni che lo indussero, non lasciava lusinga veruna alla salvezza dell’infermo coll’ablazione dell’arto.
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E voi Illustre Operatore sapete sovra ogni altro quanto sia fondata la opinione che la cancrena spontanea è invincibile malattia, e come lungo esperimento abbia guidato i chirurghi a non ammettere l’amputazione di un arto affetto da questo morbo se non a limitatissimo processo cancrenoso, mentre più pronto più rapido n’è il suo riproducimento e più sollecita la morte dell’operato.
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Ne avrete a sorprendere se nella generale conoscenza di questo principio e nell’ordinario conflitto di popolari opinioni sorse chi orgoglioso di sua sapienza con sicura voce gridava a Giove il mio divisamento come certo ed infallibile si persuadesse al suo dire nè potesse alcuno meglio di lui giudicare o reggere ad analisi induttiva e a miglior fortuna condurre gl’infermi.
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Ma se l’uomo all’altrui proposito avesse sempre fede, sarìa stolto, e bene disse Stewart Duncan «Non è degno della stima delle persone di sua professione colui che si accontenta di ciò che hanno fatto gli altri senza indagare se i precetti ricevuti in pratica non siano suscettibili di qualche vantaggioso cambiamento».
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Ond’è che dell’analisi istituita parendomi forte, non dubbiai proporre l’amputazione, del qual fortunato successo cred’io col farvene alla meglio che sò la narrazione, di presentare ai cultori dell’arte ancora un irrefragabile esempio a più rigorose deduzioui a più coraggioso intraprese.
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Da Civitanova è il Sig. Pietro Brunacci di anni 65, sano per natura, ben conformato della persona e adusto, di corpo agile e di una tempra invidiosa, poichè non seppe in questa sciagurata terra che fosse mai passione, e sentissi così forte da rendersi alle umane vicissitudini superiore.
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Nato da sani e robusti genitori i quali si dipartirono da questo mondo in età avanzata, non ebbe a soffrire violenti malattie nè di quegli incomodi che per frequenza sono omai neccessario costume ne’ viventi del secolo.
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Padre di molti figli, vivendo sempre una vita prosperevole e compagnesca, ai 48 anni pervenuto, infermò la prima volta di lieve pneumonite da cui tosto riavutosi acquistò la primiera robustezza.
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Fu in questa età che ebbe accetto e sostenne per sette anni l’impiego di verificatore alle piantagioni di tabacco, dove le notti umide e le variazioni atmosferiche alle quali di frequente si esponea, gli furono motivo di ripetuti soffermamenti di sudore, che sebbene alterassero le funzioni della cute nulla valsero però ad infiacchire la vigoria di sua salute.
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Ma sia che le cattive disposizioni ad infermare vivessero latenti in lui, sia che nuove cagioni morbose trovassero minor resistenza nella fibbra a reagire contro di esse, certo è che passato del tempo da che abbandonò il suo impiego, infermò di un reuma generale il quale ebbe prima sede e si mantenne maggiormente crudele alla sinistra gamba da richiedere medico consiglio.
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Le sanguigne locali e le generali ripetute ammansarono il rigore del morbo, giammai lo debellarono; imperciocchè alla gamba sinistra rimasero le vestigia di profonde molestie che colla torpidezza, colla difficoltà al movimento dell’arto si manifestavano, per cui ricorse l’infermo ad un appoggiatojo onde reggere più sicuro il peso del corpo.
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In simil guisa molestato dal dolore e costretto ranchettare passò alcuni anni sempre gaudente e speranzoso di guarire col tempo; nè pensò più oltre di curarsi malgrado la intensità e la maggiore vigoria che in lui riprendevano i morbosi fenomeni.
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In fatti era talora assalito da un senso di torpore al piede che lungo il ginocchio perveniva onde era obbligato fermarsi per via; e questo torpore cambiava talvolta in un crampo alla sura che non gli permetteva il movimento dell’arto.
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Sedutosi per alquanti minuti, e cessata la muscolare spasmodia si rimettea in cammino per sostare di nuovo, attesochè più forte l’assaliva il crampo; e così, alternando il moto, il dolore la sosta, compiva il malaugurato passeggio desiderando la sua casa, la sua camera, il letto.
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Non per questo facea lamenti, che se bene col passar del tempo la gamba maggiormente gravitasse per affievolimento di vita, in lui non cessava il desiderio di vivere in combriccola e di rallegrare co’ suoi compagnoni assaporando l’odoroso nettare.
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Quando una nuova morbosa sensazione l’assalse; era un prurito cutaneo tormentoso, a torsi il quale usava delle sgarbate grattature e delle violenti strofinazioni e per riavere il perduto sentire del derma e acquistare la calorificazione la quale spesse fiate mancava nell’inverno a tutto l’arto; e sentiva così penetrante il freddo che gli era forza gire in letto di buon ora trovandolo mezzo più sicuro più pronto a riparare al peso all’inazione alla smania al gelo che ne soffriva.
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Eravamo in decembre del 1850 quando sentì maggiormente fastidioso il solito prurito alla parte anteriore della gamba sulla costa della tibia, cinque dita trasverse sotto il ginocchio, per cui fatto forte delle sue unghie raspò tanto e con tal sodisfazione la pelle, che, per averne tolta la cuticola per certo tratto, nè conseguì estesa escoriazione: dove alcuni topici applicando e inutili vedendoli alla guarigione, dopo alquanti giorni mi chiese perchè dicessi a bene di lui qualche cosa.
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Era una escoriazione passata in cancrena, com’è agevole l’osservare, attesochè la lacerazione avvenuta di molti filamenti nervosi che vestono il derma fa ragione della perduta sua vitalità che in seguito andò riproducendo e per novella vita di essi e de’ suoi piccolissimi vasi.
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Raccomandai pertanto le fomenta di posca, poi i cataplasmi emollienti, i purgativi ed il riposo, ripetendo essere lunga la malattia, come questa per vero mantiensi sempre tale anche quando colga un uomo di buona tempra, di buon sangue.
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Così fu di fatto: imperocchè l’escara lentamente cadde per rinnovellarsi ben presto, poi ricadde ancora, e quando la piaga per la seconda volta era a vicina cicatrizzazione, non sò se per violenza esterna o per necessario progredimento morboso de’ tessuti, di notte tempo fu preso l’infermo da vivo dolore lungo la tibia con pizzicore tormentoso che non fè tregua si tosto.
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All’indomani visitato, trovai un arrossamento a cordone lungo la gamba che parea proprio un vaso il quale avesse subìto una infiammazione viva ed estesa; sanguinolenta era la piaga, e pallida nel colore, per cui lo ripurgai e rimisi a rigorosa dieta, ed alla località posi molte sanguisughe: poco vantaggio ne ottenni; perocchè i bordi inferiori di essa in maggior estensione arrossivano; cavai sangue dal braccio, se bene i polsi nella normalità de’ loro moti non fossero turbati, ed il sangue sottratto nulla presentò di alterato e nel crassamento e ne’ suoi rapporti col siero; riapplicai le mignatte, ma indarno; che a maggior sconforto le piccole ferite annerivano ed una rete varicosa di finissimi vasellini cutanei si presentava così estesa e pronunziata verso il piede che non lasciava dubbiezza alcuna sulla tremenda disorganizzazione che dovea seguire.
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Sviluppò in fatti una spontanea cancrena che poi rapidamente corse la gamba fino ai malleoli: febbrile frizzanti si addimostrarono i polsi, e nuovo sangue fu tolto dal braccio: usai le fomenta di posca alla località, drasticai ripetutamente l’infermo, ma tutto fallì poichè la cancrena maggiormente infieriva quanto maggiori erano i soccorsi dell’arte.
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E qui sarìa futile se dicessi appuntino ciò che si fece e si osservò, mentre credo nulla passasse inosservato ed intentato; ed avendo io fede alle sanguigne precipuamente generali ed all’azione deprimente de’ rimedj sul circolo sanguigno, a questi mezzi curativi mi attenni.
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Malgrado tutto ciò i polsi si manteneano vieppiù vibrati e duri, la cute arida e squamosa; le urine si colorivano e talvolta in rossastro; il sonno soporoso e l’aspetto dell’infermo per due lividi cerchi sotto gli occhi pronunziatissimi rendeano l’animo di lui più tristo e malanconico; e quello che maggiormente spaventava era il battere forte cartilaginoso delle crurali ed in specie della sinistra, che avresti detto senza meno essere da estesa litiasi ammorbata.
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In questo stato di cose i timori della famiglia e miei erano al colmo, perlochè non vedendo risorsa alcuna nell’arte proposi consulto dell’altrui valevole opinione, e prestando fede i congiunti al Chiarissimo Zampatori, primario chirurgo di Fermo, di Lui si fece sollecita richiesta.
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Uomo vecchio dell’arte ed espertissimo pratico si trovò meco al letto dell’infermo ai primi del perduto marzo, e tutto chè nulla trovasse a dire della diagnosi troppo sicura e del trattamento curativo praticato, pure confortò quell’infiacchito corpo col ripetere il mio avviso, essere l’unica via a salvamento l’amputazione della coscia, qualora volesse fortuna e la prodigiosa natura limitare in alcuna guisa il processo devastatore.
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Risultamento consultivo che per avventura non avrebbe consolato alcuno che meglio avesse conosciuto del Brunacci la terribile posizione: e tanto valse ad animare vieppiù lo spirito di lui giammai completamente perduto, che andava più fiate pregando gli si togliesse l’arto putrefalto.
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La cancrena in frattanto distruggeva in alto e verso il ginocchio e quando ebbe attaccato parti tendinose della gamba ed altre estesamente scoperte, quando le ugne de’ piedi erano compiutamente bluastre, si mostrò alla posterior parte dell’ arto un vasto abscesso che occupava sotto il tegumento cancrenoso tutta la sura fino alla fossa poplitea; ed una infiammazione eresipelatosa si estendeva all’esterno del ginocchio da sormontare di fianco la rotella.
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Aperta in tutta lunghezza l’estesa escara escì in copia fetentissimo pus; lavai la piaga con acqua di malva ed aceto, poi col cloruro di calce in soluzione, e proseguii nell’applicazione del cataplasma di Durand, che da molti anni per il migliore emolliente tengo in uso con tutta satisfazione.
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La suppurazione abbondevole si separava e la nutrizione deperiva; sopraggiunse la diarea e ciascuno prossima vedea la funesta fine dell’infermo.
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Dopo alquanti giorni di continua assistenza e di medicazioni ripetute ora col cloruro di calce sciolto in acqua fredda, ora colla semplice acqua, vidi con meraviglia che il rossore cutaneo eresipelatoso il quale dalla sommità dell’escara invece di minacciare la finale disorganizzazione del tegumento, impallidiva e addimostrava abbastanza quanto la flogosi perdesse la sua intensità ed il suo progredimento; osservai ancora come in alcuni punti l’escara si separava, e diminuiva a poco a poco la secrezione purulenta.
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Quietavano i polsi dal loro battere frequente e vibrato, e veniva manchevole quel frizzo in ispecie delle crurali che tanto mi tenea in pensiero. Svanì in molta parte la risipola, si detergeva in estesi tratti la vasta piaga donde tante materie guaste orano trasudate, e andava l’escara separando all’intorno della sura: cessò la diarea e l’aspetto dell’infermo acquistava spirito e lena.
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Questo cambiamento dirò quasi improviso di fenomeni morbosi era per vero incoraggiante, e la natura stupendamente parea volesse por argine al processo devastatore.
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Parventi adunque giunto proprio il momento di discorrere dell’amputazione; il perchè a mò di esperimento tagliai nella sua parte sana porzione di un lembo cutaneo della gran piaga il quale staccato ed a penzolone guardava la parte superiore ed esterna della sura , e per conoscere a quali impressioni sottostava e quali alterazioni organiche era per subire.
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Fui pago ne’ miei desiderj perchè la cute tronca rimase intatta e sana; come perfettamente rimase il lembo superiore e laterale esterno della prima piaga inalterabile, malgrado la violenza di un disperato malore che vivamente e con tutta rapidità distrusse quasi tutta la gamba ed il piede.
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Sebbene dai felici mutamenti avvenuti e dalle mie osservanze, valevoli argomenti risultassero a ben prognosticare dell’amputazione, tuttavolta mi si paravano innanzi contrarietà tali che non lusingavano troppo; imperciocchè non sapeva io come porre a calcolo le forze fisiologiche omai affatto perdute dell’infermo, nè poteva assolutamente decidere di un punto cancrenoso, avvegnachè limitato, il quale minaccioso rimaneva ancora verso il capo superiore articolare della fibula.
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Pure dovea farsi ogni tentativo, e se era a tenersi propizio il momento era questo a parer mio da non abbandonare, poichè coll’attendere maggior bene dalla natura nella località, e nelle forze dell’infermo l’avremmo visto ben bresto chiudere con nostra vergogna gli occhi all’eterno sonno.
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Ricercai novellamente il savio giudizio del Zampatoti il quale gentilmente accorso a’ miei inviti trovò anch’egli profittevole il tempo dell’abblazione della coscia, che senza meno praticai al terzo superiore, avendo lui ad assistente, ed il dott. Novelli chirurgo di questo porto: nè mancarono favorirmi alcuni amici miei, e dell’operando.
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E inutile che vi dica illustre collega il processo che tenni mentre fu il circolare: ma bensì parmi interessante il sapere che la femorale si troncò all’applicare del laccio, e si mostrò perfettamente cartilaginosa, per cui più in alto un nuovo laccio applicai, nella qual legatura essendovi compreso ancora e tessuto celluloso e massa filamentosa de’ troncati muscoli, fu bastevole ad impedire il gettito sanguigno.
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Ardito fu abbastanza l’infermo perchè non venne meno nel breve tempo che praticai l’operazione e la fasciatura. Adagiato in letto fu colto però da un freddo generale, da un deliquio, il quale si vinse, avvegnachè tardi, e per via de panni caldi e dei piccanti odori sotto il naso, così che rialzati i perduti polsi, da un pallore di morte l’aspetto di lui acquistò sensi e calore.
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Allora fu che passai a sezionare il membro tronco, e scorrendo il taglio lungo l’arteria femorale e poplitea trovai completamente ossificate, e questa ossea morbosità presentava per molto tratto la forma di un cannellino quasi isolato che nell’interno delle arterie fosse riposto.
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Esaminato il femore e le parti molli ove era caduto il taglio, vidi completamente sani, mentre osservai di un colore rosso fosco tutti i muscoli, e gradatamente il sottoposto tessuto celluloso e periostio a due dita traverse sotto il taglio.
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Non tranquillai per vero a questa trista sezione sì per le fatte osservazioni che per la morbosa condizione trovata nell’allacciata arteria, perlochè credetti omai di ritenere nella massa dei perduti questo mio operato ancora.
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L’infermo intanto passò tranquilla la notte e così il giorno dopo, trascorso il quale scoprendo il moncone, vidi senza sorpresa parte del suo lembo cutaneo in rosso fosco all’intorno colorato; locchè non lasciava dubbiezza sul nuovo riproducimento malefico.
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Si manifestarono ben presto le marce le quali non so dire di quanti colori fossero, ed il fondo della ferita e dei tessuti tutti presentarono un particolare colore misto sbiadito e sudicio. I polsi però non si alterarono, a meno di una lieve frequenza unita a lieve calore cutaneo, che non dovea porsi a calcolo come necessario risentimento di un ampio taglio: le notti erano tranquillamente riposate e si manteneano abbastanza ricomposte le funzioni digestive.
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Qualche bibita lievemente subacida, alcuni lavativi rinfrescanti per moderare il calore che al retto accusava, ed i brodi nutrienti furono il trattamento terapeutico ed igienico.
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Passavano i giorni nè cessava io di riguardare quali erano i progredimenti della cancrena sul moncone; e venendo alle brevi dirò che dopo 15 giorni era omai separato e caduto il laccio, mentre di buona indole erano le marce e la piaga si detergeva, per cui a poco a poco la granulazione aumentava, e finalmente dopo 40 giorni circa dalla amputazione era la piaga a completo cicatrizzamento.
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L’appetito si mostrò forte ed il Brunacci intendeva indennizzarsi della lunga astinenza: si nutriva, e le digestioni erano ricondotte a perfezione, e così dopo un altro mese, sesto di sua disavventura, acquistò nel volto ancora quel colorito vermiglio che da molti anni non avea più, e le sue carni presentavano tale freschezza da crederlo ringiovinito; lo che al dire del sapientissimo Bolognese Fisiologo parrebbe che la nutrizione avesse le materie perdute compiutamente riparate, ed il suo corpo perfettamente rinnovato.
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Da questo fortunatissimo caso impertanto potrebbonsi a parer mio dedurre molte conseguenze e molte discussioni riproporre in campo; ma in argomento cosi astruso non intendo avanzare opinione, il perchè coll’immortale Poeta
                                                 « Rari nantes in gurgite vasto»
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A voi dottissimo Professore le investigazioni e lo sviluppo: ai meno esperimentati pratici nell’arte il seguire, quando convinti, le orme de’ maestri.
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A me non resta che il piacere di aver salvato la vita ad un padre di famiglia; di aver dato alla società un uomo che secondo il comune intendimento non sarebbe più; di avere alla scienza presentato un fatto che avrà un giorno per altri consimili a prosperare un isperato numero d’infelici, e sarà di guida a riguardare di questo spaventevole morbo assai meglio le cause, l’infrenabile progredimento e il punto d’accordo per stabilire più frequente l’amputazione degli arti; e così cesserò dal trattenervi, Onorevolissimo Collega, ripetendo ai detrattori dell’altrui fama, agli invidiosi, alle gracchianti rane le parole dell’Alighieri.
                                                                              Lascia dir le genti;
                                              Sta come torre fermo che non crolla
                                              Giammai la cima per soffiar de’ venti
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State sano e credetemi
Civitanuova li 30 luglio 1851
Il vostro aff.mo cugino
Luigi Golinelli
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A titolo di informazione riporto qui di seguito l’albero genealogico di Pietro:
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PIETRO PAOLO di Ignazio nasce a Civitanova il 26.1 1786 e muore il 2.1.1861. 
Nel 1850 aveva, appunto, 65 anni.
IGNAZIO GIACOMO ONORIO, nonno dell’avv. Ignazio, nasce nel 1812 e muore il 13.4.1859.
GIUSEPPE CESARE di Ignazio Giacomo, nasce il 26.10.1842 e muore il 31.5.1909.
L’AVV. IGNAZIO FRANCESCO GIUSEPPE di Cesare e di Bocci Giovanna, figlia di Bocci Pietro, nasce il 3.12.1870 a Civitanova Marche e muore il 14.3.1928 a Civitanova Alta. 
Sposato con Anna Del Monte, non ebbe figli.
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L’avv. Ignazio, sepolto a Civitanova Alta, è fratello del prof. Bruno, sepolto al Verano di Roma, e del Tenente Francesco, deceduto in libia nel 1914.