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IL SONETTO IN ONORE DI CRISTINA DI SVEZIA

Pochi giorni fa ho fatto richiesta all’Associazione dell’Arcadia, presso la Biblioteca Angelica nei pressi di Piazza Navona, del sonetto che Francesco Brunacci scrisse in onore della Regina Cristina di Svezia.
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Avevo dubbi nel suo ritrovamento, ma, con mia grande sorpresa, poco fa ho ricevuto risposta positiva.
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Ma non solo, … la dr.ssa Giovanna Rak, che qui cordialmente ringraziamo, ci fa il gradito regalo di trascriverlo, aggiungendo anche altre utili informazioni.
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Riporto qui di seguito la gentile risposta della dr.ssa Giovanna Rak ed il sonetto, pregando Alberto Fiorani di Ostra vetere di farcene un commento in prosa, di cui lo ringraziamo anticipatamente.
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"Gentile signor Brunacci,
ho scorso l’inventario dei manoscritti dell’Arcadia e ho trovato il sonetto che desiderava conoscere, l’unico scritto di Francesco Brunacci nell’archivio.
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Si trova nel volume 4 dei Manoscritti, alla carta 216r. Glielo trascrivo: sul margine del foglio, in alto a sinistra, con inchiostro più scuro del testo, è scritto "Originale" e in basso a sinistra, prima della firma di Brunacci, con lo stesso inchiostro scuro, una sigla o firma incomprensibile.

Segue il sonetto:

Per Basilissa
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Lasso, che il tempio di Diana adorno, 
E gli alti muri tra virgulti spenti,
Tacer io veggio, e rustico soggiorno
Farsi d’Augelli, e di silvestri armenti.
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Pur con la forza de la mente un giorno,
Ivi vagando à passi gravi, e lenti
L’ergea di novo, e gli stendea d’intorno
Archi, e Colonne, e mistici ornamenti.
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Ma mentre pien di zelo, e di rispetto,
Alzo la statua, e l’incorono, ed empio
Di sacri fumi le Pareti, e il Tetto,
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D’un alma Dea mi s’offerì l’esempio.
Era Christina! et al divino aspetto
Sparvero l’ombre, il Simulacro, e il tempio.
In fondo la firma: "Francesco Brunacci d.o [= detto] Icasto di Nonatio" (?). 
Il tratto di Nonatio è trascinato e non è ben leggibile. In realtà è Nonacrino, come è indicato nell’opera Gli Arcadi dal 1690 al 1800. Onomasticon (Roma 1977), di A.M. Giorgetti Vichi, che trae il nome dai registri cronologici in cui gli Arcadi venivano elencati al momento della loro nomina.
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La registrazione nell’Onomasticon è la seguente. "Icasto Nonacrino-Francesco Brunacci da Montenuovo. Crescimbeni 1691; 1°, 41".
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Ciò significa che Brunacci fu eletto Arcade nel 1691 sotto la Custodia di Crescimbeni ed è registrato col n. 41 nel primo volume dei Registri degli Arcadi. Fu insomma uno dei primissimi  soci dell’Accademia.
 
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E’ possibile che il suo nome ricorra anche negli Atti degli Arcadi, i resoconti delle loro adunanze, forse a proposito di qualche pubblica lettura, ma si tratta di scorrere molte pagine manoscritte e mi sarebbe impossibile farlo al momento.
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Le segnalo che i volumi degli Atti sono a disposizione degli utenti della Biblioteca Angelica, quindi se si trovasse a Roma potrebbe consultarli personalmente.
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Sperando di averle dato le informazioni desiderate la saluto cordialmente
 
Per la segreteria dell’Arcadia
Giovanna Rak"
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Da internet:
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Cristina

Regina di Svezia

 

( 1626 – 1689 )

 

 

 

La regina Cristina di Svezia visse in esilio a Roma dal 1654 fino alla morte, sopraggiunta nel 1689. L’illuminata sovrana accoglieva regolarmente nel suo palazzo le migliori menti e i migliori artisti dell’epoca, organizzando delle riunioni settimanali davanti agli influenti cardinali Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni; tra i musicisti si ricordano Alessandro Scarlatti, Arcangelo Corelli e Bernardo Pasquini, che godevano di una particolare protezione da parte della sovrana.

" Nessuno pensava che la diciannovenne regina, capace di passare una giornata intera a cavallo e di conversare con i sapienti dell’epoca, sarebbe stata la donna più ammirata e calunniata d’Europa, un vanto e uno scandalo vivente. Chi non la conosceva la trovava strana, con quei capelli in disordine, le mani sporche d’inchiostro e una spalla più alta dell’altra. Pur essendo piccola, non portava le alte calzature delle dame di corte, ma scarpe basse maschili di marocchino nero. La voce poi poteva diventare a tratti dura e maschile. Nessuno però poteva negare l’ardore dello sguardo e la pensosa dolcezza del viso. Parlava il latino, il greco, il francese e il tedesco.
Le piaceva ascoltare i filosofi e i teologi, ma solo raramente esprimeva le sue opinioni. A caccia era un’ottima tiratrice, ma a tavola mangiava in fretta, distrattamente. Cartesio, che aveva accettato nel 1649 l’invito della regina, era stato stroncato dalla sua abitudine di convocarlo ogni mattina alle cinque nella gelida biblioteca reale per dialogare con lei.

Cristina non disdegnava gli uomini, ma diceva sempre che avrebbe preferito la morte a un marito. «Sposarmi per me è impossibile. Ho spesso chiesto a Dio di darmene la voglia, ma non mi è mai venuta». D’altronde non aveva il minimo desiderio di avere figli. Era convinta che, in ogni caso, avrebbe partorito un mostro.
La Pallade del Nord, come veniva chiamata, preferiva a quella maschile la compagnia di Belle, una giovane aristocratica malinconica e avvenente. «Questa è la mia compagna di letto» spiegò al perplesso ambasciatore inglese. Poi, fingendo di tranquillizzarlo, aveva aggiunto che l’anima della sua protetta era bella come il suo corpo.

Nel 1652, l’anno in cui Belle si sposò, Cristina si convertì segretamente al cattolicesimo: un atto che meditava da tempo. Detestava il rigore dei protestanti. Una serie di gesuiti, ammessi alla corte come interpreti, aveva tessuto intorno alla regnante una delicata trama, spingendola alla conversione. La decisione era maturata durante una terribile febbre che l’aveva spinta sull’orlo della tomba. Cristina aveva fatto voto di consacrarsi a Dio se fosse rimasta in vita. Il suo profondo orgoglio le rendeva impossibile nascondere la sua fede cattolica, ma non poteva abiurare e così, a ventisette anni, dopo dieci di regno, rinunciò alla corona per essere libera. Uno dei suoi motti era “incomparabile” e cosa poteva essere più incomparabile dell’avere abdicato? L’anno della sua professione di fede, il 1655, incontrò il papa in Vaticano. Una stimata regina che rinunciava al trono per abbracciare la vera fede era una vittoria incalcolabile per i cattolici.

Superata l’ebbrezza del momento, Cristina si buttò in una serie di intrighi con Mazzarino e la corte di Francia. Voleva mantenere un potere occulto e ottenere dall’Europa cattolica una ricompensa per il suo gesto: il regno di Napoli. Inoltre spendeva molto e solo la Francia poteva elargirle quello di cui aveva bisogno. Rovinò tutto facendo pugnalare un suo amante, Monaldeschi, che l’aveva tradita in un complotto, a Fontainebleau.

Nel suo palazzo romano, l’esule viveva come una regina, dedicandosi all’alchimia, alla chimica e all’astrologia, circondata da studiosi e cardinali.
Legata a letterati e sapienti, creò una serie di accademie. La sua ricchissima biblioteca fu la base della Biblioteca Alessandrina. Aveva scritto delle memorie “dedicate a Dio’ che si fermavano al decimo anno d’età e delle massime meravigliose. Fare del bene a un essere umano, aveva scritto, è come accarezzare una pantera.

Cristina intervenne per difendere dalle persecuzioni i più famosi convertiti al cattolicesimo, ma non esitò a protestare con Luigi XIV per quelle ai protestanti francesi. Malgrado l’abdicazione, continuava infatti a sentirsi sua pari. La sua fierezza la rendeva goffa e inopportuna nelle dispute diplomatiche. I prelati non apprezzavano la sua ironia sull’ipocrisia bigotta della corte vaticana. Ma Cristina amava un giovane cardinale, Decio Azzolino. «Voglio vivere e morire schiava vostra» gli aveva scritto e nel conclave del 1670, divenne l’agente fedele delle ambizioni di Azzolino.

Morì serenamente dopo una crisi di rabbia: un prelato aveva osato insidiare una delle fanciulle che prediligeva. Aveva ordinato ventimila messe per il riposo della sua anima. Fu sepolta solennemente a San Pietro con la corona in testa e lo scettro in mano. Aveva lasciato tutto al cardinale Azzolino come «dimostrazione d’affetto, di stima e di gratitudine», ma l’erede morì due mesi dopo di lei. " [testo tratto da uno scritto di G. Scaraffia]

 

 

 

 

La tomba di Cristina di Svezia

 

 

Carosello a Palazzo Barberini, Roma, in onore della Regina Cristina di Svezia, 1656

Filippo Lauri e Filippo Gagliardi, la ‘Giostra delle caroselle’, dipinto raffigurante i festeggiamenti a Palazzo Barberini nel 1656 in onore della Regina Cristina di Svezia giunta a Roma

 

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La regina che voleva allargare il suo dominio in Europa conquistando il Regno di Napoli

Cristina, regina degli Svedesi

di Barbara Briganti

Aveva fascino e suscitò roventi passioni. Ma la sua vita fu costellata da scandali e omicidi. Come quello alla corte di Francia
L’episodio più fosco della vita di Cristina [nata a Stoccolma nel 1626, n.d.r.], regina degli svedesi, dei goti e dei vandali, avvenne il 10 novembre 1657, nella Galleria dei Cervi del castello di Fontainebleau. Cristina vi era giunta da Roma [dove si era trasferita nel 1655, dopo aver rinunziato al trono l’anno prima, n.d.r.] accompagnata da una piccola corte improbabile e folcloristica, tanto per usare un eufemismo, composta da artisti, avventurieri, mezzane, ruffiani e tagliagole. Una corte ricca di chiaro scuri, che aveva radunato durante il suo soggiorno romano. A Fontainebleau Cristina era ospite di Luigi XIV, re di Francia, pupillo del cardinale Mazzarino e ancora lungi dal diventare il Re Sole. L’anno precedente l’ex regina di Svezia  era arrivata a Parigi con un progetto politico ambizioso: in quella Europa divisa tra Francia e Spagna voleva ritagliarsi uno spazio, e individuò come oggetto del desiderio il regno di Napoli.
Per conquistarlo aveva bisogno dell’appoggio francese, anche se si immaginava volentieri, libera dalle alleanze, cavalcare alla testa di un esercito alla conquista di reami e territori. Ad ogni buon conto aveva ordinato le divise viola e nere, ricamate in argento per il suo esercito fantomatico e immaginario. Intanto era venuta a tessere alleanze politiche con il cardinale-ministro. Mazzarino era troppo intelligente per non strumentalizzare la fragile e capricciosa sognatrice, esattamente come strumentalizzava, per il bene della Francia e per il suo personale potere, la correnti della politica di mezza Europa.
Comunque sia, dopo mesi di permanenza ai margini della corte di Francia, dalla quale era prudentemente tenuta a distanza, Cristina era stata rimandata graziosamente in Italia. Con la promessa di azioni volte alla conquista del nuovo regno. Ma ben presto era venuta a conoscenza del "tradimento" del cardinale, il quale stava trattando la pace con Ia Spagna. Il sogno di Napoli si stava volatilizzando. E Cristina malgrado i suggerimenti di papa e re ritornò di corsa a Parigi, determinata a punire chi l’ aveva tradita.
A fame le spese fu il marchese Monaldeschi, scudiero di corte, un personaggio sicuramente non proprio limpido, che accusato di avere fatto il doppio gioco e di avere venduto al pontefice la corrispondenza della regina fu assassinato da due sicari proprio nella galleria dei Cervi.
Questa è la ricostruzione che normalmente accreditano gli storici, ed è quella che riporta Veronica Buckley nella sua bella biografia Cristina regina di Svezia (Mondadori, pagg. 408).
C’è un’altra versione, più romantica e melodrammatica, che parla di amore, sesso e di un altro genere di tradimento, dovuto alle corna che Monaldeschi avrebbe messo alla regina. In ogni caso, il marchese patì una della agonie più strazianti e tragiche della storia. Per ore chiese pietà, tentò di giustificarsi con la regina, si aggrappò al confessore che era stato convocato e che assisteva sconvolto e tremante a un’esecuzione che sapeva di omicidio premeditato. Prudentemente Monaldeschi aveva indossato una cotta di maglia e questo peggiorò la situazione. Finì trafitto e dopo un pomeriggio di accuse e di agonia morì dissanguato. Lo scandalo che ne seguì fu enorme. Per quanto si possa considerare la metà del Seicento un periodo dominato dall’arbitrio e dal sopruso, commettere un assassinio per motivi strettamente personali, per giunta in casa di un monarca, era intollerabile. La regina venne rapidamente rispedita in Italia e invitata a non rimettere più piede in Francia.
Cristina che, per un paio di generazioni di moderni cinefili, ha avuto i lineamenti algidi di Greta Garbo: naso sottile, occhi sprezzantemente socchiusi marcati da sopracciglia dall’arcata perfetta, messa in ombra da un cappellaccio piumato degno di d’Artagnan, era in realtà notevolmente brutta. Bassa, minuta, sgraziata, con un gran sedere e le gambe corte era fornita di un naso di dimensioni a dir poco maestose nonché di una lieve gibbosità. Eppure doveva possedere un suo fascino se riusciva a suscitare passioni sincere e durature. Fu amata e vanamente richiesta in sposa per anni dal re di Svezia, il cugino a cui aveva lasciato il trono, fu adorata dal cardinale Azzolino, un amore probabilmente solo platonico (benché sarebbe difficile accertare la verità) durato fino alla loro morte, che avvenne quasi contemporaneamente. Suscita ammirazione, derisione, curiosità, scandalo per tutta la vita. Il suo aspetto, il suo abbigliamento, i suoi modi, il suo linguaggio sboccato, provocarono un misto di attrazione morbosa e disapprovazione moraleggiante.
La messe di particolari che Buckley cita nel libro è esilarante. Come avrà reagito l’altera e bigotta Anna d’Austria sentendosi dire che “scopare è ciò per cui sono nate le belle ragazze?”. E cosa sarà  successo quando in un teatro parigino la regina, che per una volta indossava un abito vagamente femminile, completamente affascinata dallo spettacolo, si abbandonò su una poltrona alzando le gambe sopra i braccioli, “svelando ciò  che anche la donna più svergognata dovrebbe celare?”.
Tornata a Roma, Cristina vi passò  ininterrottamente i successivi trent’anni [fino alla morte, sopraggiunta nel 1689, N.d.R.], mantenendo una piccola corte brillante e colta nel palazzo Riario alla Lungara. Interessandosi di pittura e di musica, proteggendo Scarlatti, Corelli, Bernini. Introducendo, in barba ai divieti pontifici, l’Opera a Roma e dedicandosi con passione al suo giardino. Palazzo Riario ha in seguito assunto il nome di Palazzo Corsini, le stanze in cui visse Cristina sono ancora visitabili all’interno della galleria, il giardino  diventato nell’Ottocento l’Orto Botanico, alcune delle piante che la sovrana vi piantò  sono ancora lì, e l’aura di sapere e di cultura che aleggiava intorno alla corte della strana regina spira ancora in qualche modo nell’Accademia dei Lincei che ha sede nel palazzo.
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Forse la passione di Cristina per l’arte, i libri, il teatro e le accademie nasceva da un rimorso non sopito. Perchè l’omicidio più  grave che la regina di Svezia aveva sulla coscienza, almeno agli occhi dei moderni, non era tutto sommato quello di Monaldeschi. Molti anni prima, quando ancora regnava a Stoccolma, e si struggeva per un mondo che le sembrava irraggiungibile, quello delle capitali del sud Europa, aveva avuto il capriccio della filosofia. Corrispondeva da tempo con Cartesio, in particolare sulla questione del libero arbitrio e delle scelte esistenziali che questo comporta. Era un argomento che rivestiva in quel momento un’importanza straordinaria per Cristina. La regina convocò il filosofo a Stoccolma, il povero Cartesio non aveva alcuna voglia di partire, non aveva interesse per la Svezia, le rocce, il ghiaccio e gli orsi, ma fu giocoforza ubbidirle. Quando il filosofo arrivò [nel 1649, N.d.R.], l’interesse della regina per la filosofia era per alquanto scemato. Il solo momento in cui la sovrana si mostrò disponibile per le lezioni era alle cinque di mattina, nel pieno inverno artico. Cartesio, che soffriva terribilmente il freddo, avrebbe preferito poltrire tutta la mattina nel calduccio del letto, piuttosto che penare in quel modo. Con impercettibile sadismo, la regina esigeva inoltre che in sua presenza si rimanesse a capo scoperto. Dopo un mese di questa vita Cartesio si ammalò gravemente e in pochi giorni morì di polmonite. Cristina ne fu sconvolta, immaginò  grandiosi progetti di commemorazioni che ben presto dimenticati. Forse, anni dopo, creando a Roma l’ultimo grande polo culturale della città, tributava indirettamente un omaggio al martire congelato delle Meditazioni.