LA ROMA DEL ’700 AL TEMPO DEL CARDINALE
raccontata dal Silvagni
Immedesimiamoci, quindi, nella Roma di quei tempi, nella Roma del ‘700.
Il Silvagni (A2), in particolare, ci può aiutare a creare la giusta atmosfera, sicché, proprio perché il suo scritto risale al 1880, ci sembrerà di osservare due Rome, quella del 1700 a lui antecedente di un secolo, e quella a lui contemporanea, ma a noi antecedente di un altro secolo.
“Gittiamo uno sguardo sulla vecchia città, qual era prima che Pio VII, e più il genio dell’Impero, la trasformasse nelle condizioni in cui fu trovata il 20 settembre del 1870. Cento e più anni fa, la città era ricinta delle stesse mura, avea le stesse porte, meno due o tre ora chiuse, e la stessa pianta irregolare. V’erano più chiese, più vicoli, più casupole, più orti e giardini. V’erano meno strade dritte, meno obelischi, meno palazzi, nessun passeggio pubblico o Villa, pochi monumenti antichi interamente scoperti, poca cura nel mantenerli; però la città ricostruita da Giulio II, Sisto V e Paolo III, aveva già presa la forma attuale, ed erano state aperte le grandi arterie, che conducevano alla Piazza del Popolo ed alle Basiliche.
Nel Colosseo, a metà distrutto per fabbricar palazzi, e che il terremoto del 1703 aveva rovinato in guisa che, se non si riparava da Pio VII, ora sarebbe appena riconoscibile, benchè santificato allora con la Viacrucis e con una Chiesa che stava sotto il grande arco d’ingresso, si riponevano carri e bestie; e bovari, carrettieri e cavallari trovavano ricovero ampio negli ambulacri dell’anfiteatro, e non risparmiavano la Basilica Costantiniana né il Foro romano, le volte del Palatino e gli Archi di Trionfo; anzi per maggior comodità, presso il tempio detto di Vesta, in quello della Fortuna Virile, sotto l’Arco di Giano Quadrifonte si erano costituite officine per fabbriche di carri di ogni specie. Il Foro era chiamato Campo Vaccino, per il numero di bovi che vi pascolavano; l’Arco di Costantino sprofondava nel fango; quello di Tito serviva di appoggio ad una torre rovinata; sotto l’Arco di Settimio, a metà sotterra, aveva preso stanza un barbiere.
Le vie erano senza indicazione, le porte senza numero, le strade senza fanali, i tetti senza gronde, le vie senza marciapiedi, le botteghe senza vetrine e senza nome. Ai nomi era sostituita una insegna di legno o di ferro dipinta. “Cappelli” e “enormi mani” indicavano i cappellai ed i guantai; “galli, sparvieri, aquile, soli e orsi” indicavano gli alberghi; una “serpe” indicava una farmacia; un “bacile” il barbiere; le “forbici” un sarto: un “turco con la pipa” il tabaccaio; un “drappo di lana” il mercante, e così via.
A Piazza Colonna non esistevano né il Palazzo Piombino né quello col bel Portico. Là v’era un palazzetto pel vicegerente, pei notai della Camera, e per l’Archivio Urbano. Il Palazzo Ferraioli era del Marchese Niccolini; altri gradini fiancheggiavano il Corso, che dopo la case bruciate non aveva che casipole. Non esistevano le due facciate, né il bel fianco dell’Ospedale S. Giacomo, e di lì fino alla piazza del Popolo non si elevava altro bell’edificio che il Palazzo Rondanini poi Capranica, e poi Feoli, ora residenza dell’Ambasciata Russa.
Le vendite dei generi erano regolate dai calmieri e sottoposti a monopolii di qualche famiglia. (vedremo in seguito cosa accadrà quando verranno tolti dal Cardinale questi privilegi).
Fuori dalla Porta di Piazza del Popolo, una misera borgata, interrotta da qualche Villa e giardino, conduce al ponte Milvio. Nella piazza del Popolo un fontanile serve ad abbeverare le bestie. La piazza è sterrata e, a destra e a sinistra, vi sono meschine case di un solo piano per lavandaie. La piazza come è attualmente fu ideata e cominciata ad eseguire sotto l’Impero; Pio VII ed il Cardinale Consalvi la compierono sui disegni del Valadier. Se al prefetto Tournon fossero succeduti gli Assessori attuali del Comune, ancora pascolerebbero le capre in questa piazza, che è una delle più belle di Europa. Consalvi voleva che lo straniero, entrando in Roma, ricevesse un’altra idea della città eterna.
La Piazza di Spagna, irregolare, non aveva di notevole che il Collegio di Propaganda Fide, ed il palazzo dell’Ambasciata di Spagna. Le altre case erano di poco rilievo. E di nessuna importanza erano le strade che dal Babbuino e da piazza di Spagna conducevano al Corso; meno la via dei Condotti, tutte le altre erano abitate da povera gente, o da modelle, o donne di malaffare.
L’obelisco della Trinità dei Monti non esisteva, come non esisteva quello del Pincio, di Montecitorio e del Quirinale. Per vederli eretti, ci volle l’animo grande di Pio VI, e lo spirito dell’abate Cancellieri, che pubblicò l’opuscolo col titolo: “Supplica dei 4 obelischi”. Quello però del Pincio fu eretto da Pio VII.
Il bel giardino del Pincio non esisteva; v’era l’orto dei frati che officiavano la Santa Messa del Popolo. La via di Ripetta dal Popolo al Porto era una misera cosa. Il Mausoleo di Augusto, già stato fortezza, era visibile interamente e conteneva magazzini.
Ardua era la salita che conduceva al Giannicolo, né vi esisteva l’attuale passeggiata ed i giardini.
Invano bandi sopra bandi vietavano di fare immondezze. Tutte le vie e gli angoli erano inzozzati d’immondezze e di macerie.
In molte strade il buio era perfetto, ed i pochi, che si azzardavano a girare per le vie, vi andavano con lanterne, o portate da se stessi, o dai domestici bene armati.