1798
IL CASO DUPHOT
Se a Roma tutti conoscevano il nostro futuro Cardinale come il temibile ed onnipresente assessore militare, dai ribelli soprannominato “il Diavolo”, arriverà il momento in cui i Francesi, che nel frattempo avevano occupato Roma, gli riserveranno un interesse “capitale”.
Il 13 febbraio 1798 lo arrestano e lo rinchiudono in Castel S. Angelo. Il mese successivo lo condannano a morte!
Più tardi, nel 1801, in uno scritto del Cacaulta Napoleone, primo Console, si leggerà la verità sugli avvenimenti del “caso Duphot”.
«Vous connaissez, ainsi que moi – scrive il Cacault – les details de ce deplorable evenement. Personne à Rome n'a donné ordre de tirer ou de tuer qui que soit. Le général (Duphot) a été imprudent; tranchons le mot, il a été coupable!». Più chiaro di così!
Visto che “il caso Duphot” è “storia” ed è stato trattato in mille salse diverse da due secoli di storici, vogliamo, almeno una volta, ascoltare lo stesso episodio, questa volta raccontato da chi fu accusato di esserne il mandante, cioè dallo stesso Mons. Ercole Consalvi?
Ecco la sua versione, che sembra combaci perfettamente con quella del Cacault.
“Questo Generale, giovine ardente e gran republicano, tentò di eccitare una rivolta in Roma per rovesciare il Governo Pontificio. Essendosi radunati circa 500 ribelli patriotti sotto le fenestre dello ambasciatore di Francia (che era il fratello del Gen. Bonaparte, per nome Giuseppe) e gridando “Libertà viva la Rep. Francese a basso il Papa”, non ebbe difficoltà di scendere a basso e porsi alla loro testa e condursi con essi ad assalire il più vicino quartiere dei soldati, che era quello di Ponte Sisto. I soldati sulle prime si tennero dentro il quartiere, per lo scarso loro numero, ma vedendosi anche in quella posizione insultare e attaccare e considerandosi mal sicuri, fecero animo ed esciti fuori si posero coi loro fucili a far fronte al popolaccio.
Questo non cedendo e i soldati vedendosi a mal partito, uno di essi sparò il fucile e fu fatalità del destino (o a dir meglio disposizione delli occulti disegni della Providenza) che un solo colpo cadesse in mezzo a tanta moltitudine, sul Generale che era fra i primi e lo stendesse estinto a terra nell'istante. Il popolo intimorito si sbandò e il corpo dell'ucciso fu sepolto nella chiesa parochiale nel dì seguente.
Questa uccisione, quanto casuale e a pura difesa per parte dei soldati, altrettanto provocata col più reo disegno per parte dell'ucciso, mise nella massima costernazione il Governo e la città tutta. Siccome l'esito della cosa non poteva essere generalmente noto nel momento, così i cattivi, all'udire l'assalto dato al quartiere dei soldati e scoppiata (così essi dicevano) la rivoluzione, si diedero del moto e in diverse parti della città si udirono dei colpi di fucile e si videro dei tentativi, che la sola prestezza delle disposizioni militari, prese dalla Congregazione Militare colla celerità del lampo, renderono vani e inefficaci.
“Disposizioni militari, prese dalla Congregazione Militare”, praticamente sta parlando di se stesso! Immaginiamolo in ufficio che dà disposizioni, e poi a cavallo mentre corre da un luogo all’altro a controllare che tutto sia ben disposto.
Si passò tutta quella notte (come già altre precedenti in altre occasioni di temute sommosse e movimenti) sulle armi e coi cannoni: postati nelle principali piazze per accorrere prontamente dove fosse il bisogno e si stette nelle più vive angoscie non meno per il timore di qualche tentativo dei cattivi contro il Governo, che per il timore (e questo era anzi più facile ad accadere e più difficile in tanta estensione di paese a ripararsi) che per parte delli attaccati al Governo si tentasse qualche cosa contro qualche Francese, per cui si accrescesse quel risentimento e quella vendetta, che il caso accaduto sul Gen. Duphot faceva già prevedere come sicura.”
Naturalmente la “Storia” con la “S” maiuscola è pura chimera! La Storia ufficiale è sempre quella scritta dai vincitori. E gli storici, naturalmente, si adeguano.
Nel sito del “Museo Napoleonico Romano” così viene descritto il caso Duphot, nonostante il Cacault abbia tutto smentito:
“In quel drammatico frangente rimase ucciso il generale Duphot, che proprio a Palazzo Corsini, il giorno seguente, avrebbe dovuto celebrare le sue nozze con Desirée Clary cognata di Giuseppe.
Le truppe pontificie per disperdere i rivoltosi guidati dallo scultore Giuseppe Ceracchi, acceso giacobino, violarono la extraterritorialità di via della Lungara.
L'intervento di Giuseppe Bonaparte e di Duphot costrinse i pontifici a ritirarsi oltre Porta Settimiana ma un colpo di moschetto colpì a bruciapelo Duphot, uccidendolo.”
Versione totalmente diversa quella del Consalvi:
“Questo Generale, giovine ardente e gran republicano, tentò di eccitare una rivolta in Roma per rovesciare il Governo Pontificio. (Egli) non ebbe difficoltà di scendere a basso e porsi alla loro testa e condursi con essi ad assalire il più vicino quartiere dei soldati, che era quello di Ponte Sisto.
E’ evidente che qualcosa qui non quadra, anche perché, in una lettera personale del ministro francese Cacaulta Napoleone, come ho scritto sopra, si evince tutt’altro: «Voi sapete, tanto quanto il sottoscritto, tutti i dettagli di questo deplorevole avvenimento. Nessuno a Roma ha dato ordine di sparare, nè tantomeno di uccidere. Il generale (Duphot) è stato imprudente; o meglio, egli stesso ne fu colpevole!»
A proposito di Giuseppe Ceracchi, per chi non lo sapesse, il Ceracchi era uno scultore molto famoso a quell’epoca, non solo in Italia, ma anche in Francia e negli Stati Uniti. Purtroppo per lui, la sua personale amicizia con Napoleone terminò il 31 gennaio del 1801, il giorno in cui fu ghigliottinato insieme ad altri tre compagni, con i quali aveva programmato un attentato, per l’11 ottobre dello stesso anno, proprio nei confronti del Bonaparte, ormai sulla via della “Dittatura”.
Tornando al 1798, “il caso Duphot” diventa così il “casus belli”. I Francesi occupano Roma, arrestano il nostro Assessore militare e lo condannano a morte!
“Il Governo Francese, ricevuta appena la notizia del fatto, ordinò la marcia di 15 mila uomini per Roma, seguiti da altri corpi. L'armata giunse con la celerità del lampo, né il Governo poté mai penetrare quali ordini avesse il Generale in capo (ch'era il Gen. Berthier), il quale negò di vedere 4 deputati, che il Papa gli spedì incontro a Narni per conoscere le sue intenzioni, rispondendo che avrebbe dato loro udienza alle porte di Roma. La sera dei 9 febbraio l'armata occupò il Monte Mario, senza che il Generale volesse nemmen ivi vedere i deputati, contro ciò che avea promesso.
Nella mattina del 10 giunse alla Porta della città detta Angelica, un uffiziale e un trombetta, che trovandola aperta e non vedendo alcun segno di resistenza (giacché il Papa non aveva né la forza per farla, né voleva esporre il suo popolo, il quale si offeriva a prestargli una difesa, che sarebbe riescita tanto dannosa al difendente, quanto insufficiente al difeso), entrarono francamente e, condottisi al Castello S. Angiolo, chiesero di parlare al comandante del forte, a cui dissero che fra tre ore sarebbero entrati 1000 uomini nel Castello, il quale doveva trovarsi evacuato affatto dalla truppa pontificia, e che il Generale in capo voleva che il comandante della truppa che era in Roma si conducesse al Monte Mario dove gli avrebbe parlato.
Fatta relazione di tutto ciò al Card. Segretario di Stato, il comandante della truppa si condusse al Monte Mario per udire ciò che voleva dirgli e per dimandare ancora in nome del Governo quali intenzioni il Generale avesse, giacché si era nella ignoranza di tutto e per tale motivo, congiuntamente a quello di essere in pace con la Rep. Francese, non faceva il Papa alcuna opposizione ad una truppa che non aveva luogo a credere nemica.
La risposta del Generale in capo fu che l'armata francese veniva per prendere una soddisfazione della uccisione del Gen. Duphot e non per rovesciare il Governo: parlò d'ostaggi e di consegne ancora che si volevano dal Governo Francese di alcune persone e di altre cose relative alla truppa del Papa, inutili a riferirsi in questo scritto, riportandosi per il di più a ciò che il Gen. Cervoni avrebbe detto in suo nome al Card. Segretario di Stato.
Il comandante pontificio fece a questo la relazione di tutto ciò e si ebbe l'ordine di lasciare entrare la truppa francese nel Castello e di ritirare nei quartieri tutta la pontificia, come il Generale francese aveva dimandato. Questi ordini mi furono inviati dal Card. Segretario di Stato acciò la Congregazione Militare facesse eseguirli.
Non è difficile imaginare la costernazione generale e la difficoltà insieme di eseguire in tanto brevi momenti tutti gli ordini ricevuti. Io fui nella necessità di trasferirmi in persona al Castello per affrettarne la evacuazone, né potrei qui descrivere la confusione, tristezza, imbarazzo, rischio di quella lugubre scena.
Di nuovo vediamo Mons. Ercole Consalvi personalmente in azione.
“Il popolo era affollato alla porta, in gran silenzio e mestizia, ed i cattivi, partigiani dei Francesi, vi erano pure in gran tripudio.
A forza di attività e delle più indefesse cure, riescì di far evacuare il Castello nel termine prescrito senza disordine e senza commozione popolare e di impedir questa anche nel resto del giorno e nella successiva notte, togliendo così ai Francesi almeno la soddisfazzione che tanto desideravano, quella cioè di poter dire che il popolo si era commosso o contro di loro, o contro il Governo, e avere in qualunque di questi due titoli un'apparente giustificazione del loro ingresso e occupazione di Roma e delle successive misure che preparavano.
Già il corpo dei 1000 uomini era entrato nel Castello in quella giornata, alla indicata ora, e vi si tenne rinchiuso tutto il giorno e tutta la notte senza fare altra operazione che quella di fortificarvisi.
Nella seguente mattina del dì, nulla avendo veduto accadere fin allora che fornisse il pretesto della occupazione anche della città, il Generale francese non la differì più a lungo e, lasciato un corpo nel Monte Mario, ove si fortificò e dove rimase egli stesso, fece entrare nella città, che era immersa nello stupore e nel timore e nella tristezza e silenzio, 10 mila uomini, i quali si fortificarono subito nei luoghi più elevati e più popolati, come il Quirinale, S. Pietro in Montorio, la Trinità dei Monti, la Piazza Colonna e il Trastevere, né in tutta quella giornata vi fu altra operazione o movimento.
Nella sera il Gen. Cervoni andò ad annunziare al Card. segretario di Stato le intenzioni del Generale in capo e del suo Governo. Si conservava il Governo del Papa, ma con una riforma e diversità delle antiche forme; si esigeva una contribuzione di molti milioni in un prescritto termine ed una porzione in 48 ore di tempo, obligando lo stesso Governo del Papa ad imporla sulle più agiate famiglie, per assicurarne maggiormente la pronta percezzione; si volevano alcuni Cardinali e prelati e il nipote del Papa in ostaggio per un certo tempo e si voleva la consegna di alcuni altri al Governo Francese, che li aveva decretati de prise de corp. Queste ed altre disposizioni, inutili a qui riferirsi, furono anche annunziate alla armata nelli ordini del giorno seguente, in cui furono immediatamente eseguite.”
Nel frattempo, tornando al nostro assessore militare, essendo egli anche “Giudice”, continua il suo dovere presso la Sacra Rota. Ma non ancora per molto!
Gli eventi precipitano e, dato che a quei tempi sicuramente non si scherzava né con il Direttorio Francese né con i suoi nemici personali che lo odiavano in modo particolare essendo egli, appunto, l’Assessore militare, da persona “intelligente” come egli era, certamente si preparava a fuggire e a raggiungere il fratello. Seguiamolo.
“Io era andato in quella mattina al Vaticano, essendo giorno di Rota, per giudicare le cause di quella sessione, giacché il Governo non era distrutto. NelI'escire dal tribunale, fui chiamato dal Card. Segretario di Stato. Prima di riferire ciò ch'egli mi disse, devo raccontare che fin da quando l'armata francese era in Narni, uno del club dei Giacobini suoi aderenti (che era in una attiva comunicazione col Generale in capo per tutte le notizie e disposizioni, che a questo occorrevano per assicurare il suo ingresso in Roma e per regolare le operazioni successive), venne occultamente a trovarmi in luogo terzo e, in segno della gratitudine che mi professava per qualche antico benefizio da me ricevuto, mi avvisò segretamente che come Assessore della Congregazione Militare io ero il capo lista delle persone che dovevano consegnarsi al Governo Francese, appena entrata in Roma l'armata.
Dicendomi di più che, oltre il volersi assicurare di me come capo del militare pontificio per la presidenza che avevo nella detta Congregazione e come quello, diceva egli, di cui il nostro club ha fatto conoscere al Generale essere necessario l'arresto più che di qualsivoglia altro per la sicurezza della esecuzione delle sue operazioni, ero di più, nella mia qualità di organo della Segreteria di Stato presso il militare, la prima delle vittime necessarie a colorire la occupazione di Roma col pretesto di una vendetta di quella uccisione, di cui si voleva addossare la colpa al Governo Pontificio, e che perciò mi consigliava a partire immediatamente per Napoli, giacché per salvarmi non avevo un momento da perdere.
Questo è, come si direbbe oggi, uno “scoop”! Chi sarà mai stato quest’uomo che avvertì Mons. Ercole dell’imminente pericolo? Ma andiamo avanti.
“Involatosi egli da me come il lampo per timore di essere scoperto da qualcuno dei clubisti, senza quasi darmi il tempo di ringraziarlo dell'offizio che con me pratticava, io andai a riferire tutto ciò al Card. Segretario di Stato, tacendogli il nome del delatore. Egli voleva che io profittassi dell'avviso e che senza ritardo partissi per Terracina, per ivi aspettare l'esito delle cose e vedere quale piega prendessero, onde regolare o il mio ritorno a Roma, o l'ingresso nel confinante Stato di Napoli.
Ringraziandolo dell'interesse che prendeva per me, io mi ci ricusai fermissimamente dicendogli che, senza pretenderlo un merito mio, ma solo un effetto della posizione delle cose, io ero sicurissimo che in quelli pericolosissimi momenti, nei quali ognuno sfuggiva di compromettersi, se io avessi abbandonato il posto che occupavo. nel dipartimento del militare, la rivoluzione interna sarebbe scoppiata certissimamente, che era ciò che volevano i Francesi per non avere l'apparenza di essere venuti apposta a detronizzare il Papa, detronizzandolo i suoi Romani, o. almeno per avere un pretesto di entrare in Roma per ristabilirvi la calma: che nella inevitabile caduta del Governo, la quale si vedeva già chiaramente, la sola cosa che mi sembrava rimanerci era quella che la ingiustizia e la violenza dei Francesi almeno apparissero manifestamente, né potesse dirsi che il Papa era stato detronizzato dai suoi sudditi, il cattivo numero dei quali, benché infinitamente inferiore a quello dei buoni, pure bastava all'intento per il terrore che alla vista dell'imminente ingresso dei Francesi tratterrebbe i buoni dal resistere ai cattivi: che io mi ripromettevo che, finché io fossi alla testa del dipartimento, a cui presiedevo, la truppa pontificia avrebbe sicuramente mantenuta la tranquillità interna, né la negligenza o l'avvilimento o il timore o anche la mala intenzione di alcuni avrebbero nociuto alla cosa pubblica; e che perciò, conoscendo che le circostanze (non il merito) mi rendevano necessario per l'indicato oggetto, non avrei mai comprata la mia sicurezza al prezzo del danno del mio Sovrano e del Governo, a cui ero attaccato fino alla morte, onde non volevo assolutamente profittare né dell'avviso, né del permesso datomi, ma restare al mio posto e correre la sorte del mio Padrone.”
Accidenti che spiegazione! Comunque sia, sinceramente, io questa decisione non l’ho proprio capita! La pelle è pelle! Improvvisamente il giovane Consalvi si mette a fare l’eroe! Ma a che pro, se persino il Cardinale di York si era rifugiato a Napoli, e con lui chissà quanti altri (tra i quali lo zio Filippo Carandini) avranno preso la via dell’esilio.
“Il Cardinale mi abbracciò e commendò la mia risoluzione, che il Cielo coronò poi del conseguimento dell'effetto che l'aveva determinata. Tutto ciò premesso, dico dunque che chiamato all'escire dalla Rota dal Cardinal Segretario di Stato, come ho detto sopra, egli mi disse che fra le cose annunziategli dal Gen. Cervoni nella sera precedente, vi era quella del mio arresto e consegna ai Francesi per le ragioni già accennate di sopra, ma che egli avendo assai parlato in mio favore, dimostrando la mia innocenza e adducendone in prova il non aver io voluto pormi in salvo prima dell'ingresso dell'armata benché avvisato, il Generale si era arreso e si era contentato del solo arresto per qualche giorno per una certa apparenza, rinunziando alla pretensione della consegna e permettendo ancora che l'arresto medesimo fosse in mia casa e non già nel Forte S. Angiolo: finì dunque con dirmi che me ne fossi tornato a casa direttamente e che vi ci restassi in arresto fino a nuovo avviso, il quale non avrei aspettato niente a lungo, com'egli me ne assicurava.
Io tornai alla mia casa e ci rimasi in arresto, secondo l'ordine ricevuto dal Governo Pontificio, in cui nome si facevano in quel primo giorno tutte queste cose. Nello stesso giorno, che fu il 12, vidi comparirmi improvisamente due commissarii francesi, i quali vennero a fare un atto che era ben poco d'accordo con un arresto di sola apparenza e per pochi giorni, come era stato assicurato al Card. Segretario di Stato. Essi biffarono tutta la mia casa e tutte le mie robbe, lasciandomi libera la sola stanza in cui dimoravo e ciò che avevo indosso e sul mio letto. Domandai cosa ciò significasse e mi risposero che non lo sapevano, essendo semplici esecutori di quell'ordine.
La mattina seguente, che fu il 13, vidi comparire un aiutante, che mi disse di seguirlo e nulla più.
In abito nero di abbate come mi trovavo, discesi le scale con lui e, salito nel suo legno, senza ch'egli mai parlasse, vidi condurmi alla Porta del Gen. Gandini, che era il primo militare della Congregazione e capo della truppa pontificia. Senza scendere dal legno, vidi condurre a basso da un altro aiutante il sudetto Generale e, fattolo entrare nel legno in cui ero, fummo condotti ambendue al Forte S. Angiolo ed ivi ritenuti.