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1810, i 13 Cardinali NERI

i 13 Cardinali NERI
Si nota nei suoi scritti un pizzico di orgoglio e di compiacimento quando afferma che:
Nello stesso giorno dunque noi ci trovammo obligati a più non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire di nero, dal che nacque poi la denominazione dei Neri e dei Rossi, con cui furono distinte le due parti del Collegio.”
ed anche:
“… per le premure che gli si fecero a favor nostro, non già da noi, che mai volemmo farle, anzi vi ci ricusammo benchè eccitati, ma dal Card. Fesch e dai Rossi, i quali, vergognosi della differenza del nostro abito, che era da tutti onorato, dal loro che era vilipeso, facevano con quelle istanze presso l’Imperadore non tanto la nostra, che la loro propria causa.”
Insomma, cos’era accaduto, visto che, come prima conseguenza, fu dato da Napoleone l’ordine di fucilare 3 Cardinali, tra cui il nostro, e come seconda conseguenza si limitò a cambiare l’ordine per fucilarne solo uno, cioè sempre il nostro?
Fu un prodigio che, avendo nel primo furore dato l’Imperadore l’ordine di fucilare 3 dei 13, cioè Opizzoni, me e un terzo, che non si è saputo chi fosse (forse fu il Card. di Pietro), ed essendosi poi limitato a me solo, la cosa non si realizzasse.”
Noi avevamo saputo che si dovevano fare 4 inviti, cioè il primo a S. Cloud per presentarsi dal Sovrano alla Imperadrice appena arrivata tutti i Corpi più elevati di rango; il secondo pure a S. Cloud per assistere al matrimonio civile; il terzo alle Thuillerie per assistere al matrimonio ecclesiastico; e il quarto pure alle Thuillerie per il ricevimento dei Corpi come sopra, stando i Sovrani sotto il trono.
Dopo molte deliberazioni fra noi 13, si concluse che al secondo e terzo invito, che risguardavano il matrimonio, non saressimo intervenuti, cioè non all’ecclesiastico per la ragione detta di sopra, non al civile perché non credevamo che convenisse a dei Cardinali autorizzare con la loro presenza la nuova legislazione, che separa un tale atto dalla così chiamata benedizzione nuzziale, prescindendo, anche dal supporre con quell’atto medesimo già sciolto quel precedente vincolo, che noi non credevamo sciolto legitimamente.
Decidemmo dunque di non intervenire nè al secondo, nè al terzo, come ho detto. Quanto però al primo e al quarto, considerammo che altro non erano che un atto di ossequio e di omaggio, su cui non cadevano le difficoltà che cadevano sul matrimonio, e che poteva farsi quell’atto ad amendue anche indipendentemente dall’essere o riconoscerli per marito e moglie.
Non fu senza differenza di sentimenti che si discusse il quarto invito (ed io fui uno delli opinanti per il no), considerando il pericolo di qualche publica scenata.
Nella sera del primo invito andammo tutti a S. Cloud. Nell’aspettare ivi nella gran sala la venuta dei due Sovrani, io ebbi a sostenere un vivissimo assalto, che mi costò sudori di morte.
Eravamo tutti insieme, Re, Cardinali, Principi del sangue, Gran Dignitarii, i Ministri, i Grandi della Corte, quando io vidi improvisamente accostarmisi il Ministro della Police, ch’era M. Fouchè, Duca d’Otranto.
Fin dalla prima venuta a Parigi per il Concordato io ne avevo fatto la conoscenza e mi aveva preso in grandissima affezzione. Egli dunque in quella sera, presomi per mano, mi condusse in un angolo della stanza ed ivi mi dimandò se era vero che alcuni Cardinali volevano commettere il gran sbaglio anzi, riprese, il grande attentato di non intervenire al matrimonio dell’Imperadore. Io che non volevo esporre niuno dei miei compagni prima del tempo e di più volevo evitare una discussione che prevedevo per me imbarazzantissima, differivo a rispondergli, non volendo d’altronde negargli la cosa, ma, ripetendomi egli con insistenza la stessa dimanda, presi il mio partito solito della franchezza e della verità e gli dissi che io non avrei potuto dirgli nè quanti nè quali fossero, ma che potevo ben dirgli che egli parlava con uno di quel numero.
Allora egli mi disse che con suo sommo dolore l’Imperadore gli aveva detto, in quella stessa mattina, che io vi ero, ma ch’egli glielo aveva negato assicurandolo ch’era impossibile che uno (diceva egli) del mio spirito e non imbevuto dei pregiudizii dei miei simili pensassi così e molto meno in un affare in cui vedevo il maggior numero de miei colleghi (il che mi dimostrò esser egli benissimo informato della cosa) pensare diversamente.
E qui si pose a farmi considerare le conseguenze terribili del passo che volevamo fare. «Voi (siete) quello che avete fatto il Concordato e siete stato primo Ministro e siete tanto conosciuto e (aggiuns’egli) tanto stimato (benchè io non meritassi questa stima), è cosa terribile che Voi siate nel numero dei non intervenienti e l’Imperadore sarà più furioso di ciò, che di tutto il resto, perché Voi date troppo peso alla bilancia» e, dopo ciò, si pose a scongiurarmi di intervenire, almeno, diss’egli, al matrimonio ecclesiastico, che è quello che interessa, non essendo il massimo dei mali se non intervenite al civile.
Io tenni sempre fermo.
Egli, vedendo aprirsi le porte per l’ingresso dei Sovrani, mi lasciò, scongiurandomi a riflettervi meglio e a persuadere anche i miei compagni acciò venissero almeno al matrimonio ecclesiastico e «quanto a Voi», concluse, «vi dico che sono capace di venire in quella mattina a prendervi io stesso nella mia carrozza, piuttosto che far succedere il non intervento vostro, che è ciò che è il peggio di tutto non meno per la cosa, che per Voi stesso».
Così terminò quel colloquio, che mi costò, ripeto, sudori di morte e di cui non lasciai ignorare nessun dettaglio ai 12 miei compagni, che n’erano stati spettatori con tutti gli altri Cardinali e Grandi, che erano in quella sala.
Giunti momenti dopo i Sovrani, l’Imperadore, che aveva per mano la nuova Imperadrice, a cui andava presentando le persone, quando giunse dove noi eravamo, disse, «Ah, ecco qui i Cardinali», e dopo ciò, trascorrendoci tutti lentamente, ci nominò alla Imperadrice a uno per uno, aggiungendo su di alcuni qualche loro qualità, per il che, quando nominò me, disse: «quello che ha fatto il Concordato».
Niuno parlò, altro facendosi che un inchino. Questa presentazione fu fatta dall’Imperadore con un volto molto affabile e cortese, avendo voluto, come si seppe poi, tentare di vincere, con quelle dimostrazioni di bontà, quella renuenza, che in noi sapeva.
Ciò accadde nel sabato sera 31 marzo. Nella domenica si fece il matrimonio civile in S. Cloud. I 13 non intervennero, cioè i Cardinali Mattei, Pignattelli, Somaglia, Litta, Ruffo, Scilla, Saluzzo, di Pietro, Gabrielli, Scotti, Brancadoro, Galeffi, Opizzoni ed io.
Dei 14, divisi da noi (eccettuati, ripeto, il quasi morente e fuor dei sensi Caprara e il Card. Fesch, che intervenne con la famiglia Imperiale e cariche di Corte, essendo grande Aumonier), intervennero, cioè i due Doria, Spina, Caselli, Zondadari, Ruffo, Baranella, Vincenti, Erskine, Roverella e Maury (e l’Albani).
Gli altri 3, che non intervennero, furono Bayane, Despuig e Dugnani, che inviarono le scuse come ammalati: il primo lo era veramente, gli altri due crederono di salvare la capra e il cavolo con quel pretesto, ma l’addurre la scusa di malattia li fece considerare dalla Corte e dal publico come aderenti e non come renuenti, ed essi medesimi in seguito non se ne difesero, anzi si diportarono sempre come tali.
Venne il lunedì, in cui si fece alle Thuilleries il matrimonio ecclesiastico, con quella immensa pompa, che è nota. Si videro preparate le sedie per tutti i Cardinali, non essendosi perduta sino alla fine la speranza che almeno a quello, che era ciò che più interessava la Corte, tutti interverrebbero. Ma i 13 non vi intervennero. Allora furono subito tolte le sedie vuote, acciò non dessero nell’occhio alI’Imperadore, quando giungeva.
Dei 14 intervennero, cioè i due Doria, Spina, Caselli, Zondadari, Ruffo Baranella, Vincenti, Roverella, Maury e Bayane, che vi andò infermiccio. Tre non andarono, cioè Erskine, che nel vestirsi per andarvi ebbe uno svenimento, essendo minatissimo di salute ed essendo andato con sommo suo rischio nel giorno innanzi al matrimonio civile, e Despuig e Dugnani, che pretestarono la malattia, come nel dì precedente.
Tutti tre inviarono un biglietto di scusa per tal motivo al Card. Fesch. Questo fece la funzione del matrimonio. Quando l’Imperadore entrò nella cappella, il suo primo sguardo fu al luogo dove erano i Cardinali e, al vederne il solo anzidetto numero, dimostrò nel viso tanto furore, che tutti gli astanti se ne avvidero manifestamente.
Venne il martedì, ch’era il giorno del quarto invito, per la presentazione generale ai Sovrani sotto il trono. Vi andammo tutti secondo ciò che si era concordato, ed è facile imaginare con quale cuore attendevamo nella gran sala (dove erano Cardinali, Ministri, Vescovi, il Senato, il Corpo Legislativo e gli altri Corpi, le Dame e tutti gli altri Ordini dello Stato in folla) il gran momento di vedere ed essere veduti dall’Imperadore.
Naturalmente il Cardinale, in nome della verità, non può fare a meno di mettere in risalto che nel frattempo il Cardinale Caselli era stato nominato Senatore.
Si passarono due ore, aspettando nella grande anticamera, vicina alla stanza del trono, dove stavano i Sovrani attorniati dai Re, Principi del sangue e Gran Dignitari.
Nella anticamera suddetta erano i Cardinali, il Senato, il Corpo Legislativo, i Vescovi, i Ministri, gli altri Corpi dello Stato, i Ciambellani, le Dame di Palazzo, ecc.
Si apri finalmente la porta e si incominciò a introdurre a mano a mano quelli che si presentavano.
I Senatori ebbero la precedenza sopra i Cardinali ed entrarono i primi.
Il Card. Caselli, che era Senatore (non posso defraudare questo scritto del requisito indispensabile della verità) diede lo spettacolo di entrare coi Senatori, piuttosto che coi Cardinali, dando cosi la preferenza a quel Corpo, piuttosto che all’altro, a cui per dignità, per anteriorità e per i suoi giuramenti tanto più strettamente apparteneva, e, quantunque vedesse l’esempio di altri Senatori appartenenti anche ad altri Corpi, che non abbandonarono il loro proprio Corpo per unirsi a quello dei Senatori, di cui pure erano membri.”
Quand’ecco che dopo più di tre ore di anticamera ed essendo già incominciata la introduzzione nella stanza del trono del Senato e Corpo Legislativo ed altri Corpi che si fecero precedere i Cardinali, improvisamente giunse un aiutante dell’Imperadore, recando l’ordine che quei Cardinali che non erano stati alla funzione del matrimonio partissero immediatamente perché Sua Maestà non voleva riceverli.
L’Imperadore aveva chiamato dal trono quello aiutante e gli aveva dato un tal’ordine. Scesi appena i gradini del trono, lo aveva richiamato e gli aveva detto che bastava escludere e rinviare i soli Cardinali Opizzoni e Consalvi.
Ma l’uffiziale, o fosse timore, o fosse imbarazzo, non capì bene e crede che l’Imperadore, escludendo tutti 13, avesse voluto mortifìcare più specialmente i due anzidetti nominandoli. Espose dunque l’ordine per tutti, cioè per i 13 nominando singolarmente noi due.
Così dunque tutti i 13 con somma meraviglia di tutti gli astanti, che sentirono in parte e in parte videro quella scena, la quale dai nostri grandi abiti rossi era reriduta più visibile, furono scacciati publicamente e ritornarono alle loro case.
I Cardinali che erano intervenuti al matrimonio, essendo rimasti, furono introdotti poi alla presentazione. Questa si faceva passando a uno a uno lentamente e arrestandosi solo a fare a piedi del trono un profondo inchino. Fu nel tempo che si occupò nel loro passaggio che l’Imperadore, stando sul trono, non si contenne e disse cose terribili contro i Cardinali espulsi.
Ma quasi tutto il suo discorso e le sue terribili invettive caddero su due soli, cioè sopra Opizzoni e me. Rimproverava al primo la di lui ingratitudine, dovendo a lui l’arcivescovado di Bologna e il Cappello cardinalizio.
Ma ciò che rimproverava a me era assai più terribile, non meno per la specie della cosa, che per le conseguenze che da tali sue idee mi sovrastavano.
Egli diceva che poteva forse perdonare ad ogni altro, ma non a me, «perche gli altri, disse, mi hanno mancato per pregiudizii teologici, ma Consalvi non ha questi pregiudizii e mi ha offeso per principii politici, egli è mio nemico, egli si vuol vendicare dell’averlo io fatto balzare dal Ministero.”
Il Cardinale presume che sia stato il Fouché a salvarlo dalla fucilazione:
Si suppone che la somma destrezza del Ministro Fouchet riescisse a salvarmi allora la vita.”
Strano, sembra quasi che il Cardinale non voglia ammettere che in fin dei conti Napoleone non voleva la sua morte e che l’eventuale perorazione di Fouché era solo la scusa di cui Napoleone aveva avuto bisogno per revocare l’ordine.
Arrivò così il giorno della resa dei conti.
Passarono il lunedì e il martedì senza novità, ma il mercoledì, alle ore 8 della sera, i 13 riceverono, chi alle loro case, chi dove si trovarono, un biglietto del Ministro dei Culti, che ci chiamava per le ore 9 per sentire da lui gli ordini dell’lmperadore.
Giunti tutti i 13 dal Ministro dei Culti, fummo introdotti nella sua camera, dove trovammo anche il Ministro della police Fouchet, che compariva trovarcisi a caso, amendue vestiti in abito di gala.
Appena entrati, il Ministro Fouchet ch’era al camino, a cui io mi accostai per salutarlo, mi disse in voce bassa: «Ve lo predissi io, Sig. Cardinale, che le conseguenze sarebbero state terribili: quello che mi trafigge è il veder Voi nel numero delle vittime».
Prende la parola il Ministro dei Culti francese ed accusa il Cardinale ed i suoi 12 colleghi di COMPLOTTO.
DI QUESTO DELITTO, vietato e punito severissimamente dalle leggi veglianti, si trovava nella dispiacevole necesità di manifestarci gli ordini di S. M. a nostro riguardo, i quali si riducevano a queste tre cose, cioè: 1° che i nostri beni non meno ecclesiastici, che patrimoniali rimanevano fin da quel momento a noi tolti e posti sotto sequestro, dichiarandocene affatto spogliati e privati; 2° che ci si vietava di più far uso delle insegne cardinalizie e di qualunque divisa della nostra dignità, non considerandoci più S. M. come Cardinali; 3° che S. M. si riserbava di statuire in appresso sulle nostre persone, alcune delle quali ci fece intendere che sarebbero state messe sotto un giudizio.”
Ora, per quanto riguardava il primo punto, il Cardinale questa volta aveva preso dei provvedimenti preventivi d’accordo con i Persiani, suoi amministratori a Toscanella. Il secondo punto li obbligava a non vestirsi più di rosso cardinalizio. Il terzo punto era il più pericoloso, perché qualcuno di loro sarebbe stato accusato di COMPLOTTO e di LESA MAESTA’, punibili con la fucilazione. Fortunatamente il terzo punto non fu messo in pratica.
La situazione era critica ed il nostro Cardinale ci fa notare che: “Questo discorso fu assai poco inteso da molti, i quali non intendendo il linguaggio francese, erano costretti a farselo spiegare dal vicino, se pure aveano per vicino uno che lo intendesse.”
Quei 3 o 4 che intendevano il francese (ed io fui uno di loro) risposero …”
Il Cardinale ed i suoi colleghi cercano di difendere il loro operato. Il Ministro dei Culti e Fouché consigliano di scrivere una lettera all’Imperatore. Cosa che essi fanno, lavorandoci sopra dalle 11 di sera fino alle 5 del giorno successivo, ma “Il Ministro l’accolse si con bontà, ma leggendola non se ne mostrò contento.
Napoleone non ricevette subito la lettera, perché egli nel frattempo era improvvisamente partito per St. Cloud, così …
Nello stesso giorno dunque noi ci trovammo obligati a più non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire di nero, dal che nacque poi la denominazione dei Neri e dei Rossi, con cui furono distinte le due parti del Collegio.
Restammo pure privi dei nostri beni così ecclesiastici, che patrimoniali, che furono tutti occupati dal Governo con un sequestro di nuovo genere, giacchè non solamente sequestrò ma fece versare nelle sue casse le nostre rendite, ovunque si trovarono, e mise le biffe per fino sopra i nostri mobili.
Noi fummo ridotti a vivere o dei soccorsi delli amici, o dei sussidii caritatevoli delle pie persone, che non mancarono. Io non profittai di questi secondi, per diminuirne il peso ai contribuenti e lasciare godere quei miei colleghi, che avevano meno amici di me, ai quali poter fare ricorso per la loro sussistenza.”
Interessante è notare che in Francia il Cardinale aveva molti amici che contribuirono alle sue primarie necessità e con cui naturalmente in seguito avrà egli avuto modo di sdebitarsi.