15 luglio 1801
IL CONCORDATO
PARTE V
Tralasciando, quindi, il lunghissimo racconto che ne fa il Cardinale nelle sue “Memorie” ed arriviamo al giorno antecedente la firma del Concordato.
Qui avviene un imprevisto che mette in risalto la sua grande preparazione, sia dal punto di vista linguistico, essendo perfettamente a suo agio con la lingua francese, così da poter scongiurare “l’ennesimo tranello” di Napoleone, sia dal punto di vista giuridico.
Napoleone, con un’altra sua azzeccata mossa, si era premunito, per evitare un ulteriore rinvio, facendo pubblicare sul giornale “Le Moniteur” un articolo dal titolo «Le Cardinal Consalvi a reussi dans l’objet, qui l’à amené a Paris».
Arrivato il giorno della firma del Concordato, l’Abate Bernier andò a prendere il Cardinale ed insieme si portarono a casa di Giuseppe Bonaparte, che avrebbe dovuto firmare per il Console suo fratello.
Qui aspettavano già anche lo Spina ed il Caselli, firmatari per la Santa Sede, mentre il Consigliere Cretet e lo stesso Bernier avrebbero controfirmato insieme a Giuseppe Bonaparte per il Governo Francese.
Ma …. ecco cosa effettivamente avvenne, raccontato dallo stesso Cardinale.
“Quanto costò alla S. Sede quel Concordato, sul di cui conto mi limiterò a rilevare una cosa sola, ed è che prezzo di tutti i sacrifizii, compenso di tutte le concessioni, contrapeso di tutte le amarezze fu sempre la certezza della estinzione totale dello Scisma e del più positivo abbandono del Clero Costituzionale, che il Governo Francese nelle più solenni maniere e con le promesse più autentiche assicurò sempre che sarebbe l’effetto del Concordato, se giungesse a concludersi.
A forza di indicibili fatiche, di sofferenze e di ogni sorta di angustie venne finalmente il giorno, in cui parve che si fosse giunti alla meta desiderata, alla conclusione cioè; quanto alla sostanza, di quello stesso progetto di Concordato emendato in Roma, che prima del mio viaggio non si era voluto accettare dal Governo Francese e che aveva dato luogo all’ordine dato a M. Cacult di lasciare Roma nel termine di 5 giorni.
Egli (il Bernier) ci mostrò in quella occasione il Monitore di quel giorno, in cui il Governo. aveva fatto annunziare al publico (si noti questa circostanza) la conclusione dell’affare con le parole «Le Cardinal Consalvi a reussi dans l’objet, qui l’à amené a Paris» e ci aggiunse che nel dì seguente che era il giorno della più gran festa che allora si celebrava in Francia, cioè il 14 luglio, voleva il Primo Console nel gran pranzo in publico di 300 e più persone (a cui noi pure eravamo invitati) dare la lieta nuova della eseguita sottoscrizione di un sì gran trattato, che per la importanza del ristabilimento della Religione in Francia dopo il naufragio della rivoluzione senza esempio, che era accaduta, valeva assai più che il Concordato di Francesco I con Leone X.
Si pose dunque la mano all’opera, ed io presi la penna per sottoscrivere.
Ma qual fu mai la mia sorpresa, allorchè vedendomi presentare dall’Abate Bernier la copia che egli dispiegò dal suo rotolo, quasi come per incominciare da quella, piuttosto che dalla mia, e avendo io gettato l’occhio sulla medesima per assicurarmi della conformità, mi avvidi che il Concordato, che andava a sottoscriversi, non era quello, su cui si era convenuto non solamente fra i respettivi Commissionati, ma dallo stesso Primo Console, ma che anzi n’era affatto diverso?
Ma queste cose perché gli storici non le scrivono? La scorrettezza di Napoleone, di Talleyrand, di Giuseppe Bonaparte, dell’abate Bernier, eccetera, è troppo evidente e, direi, spudorata. Il Consalvi rimane scandalizzato più dall’atto (“incredibile, ma vero”, dice!) che dal contenuto del testo. Fa finta di credere all’ignoranza di Giuseppe, ma rimane fermo nel non voler firmare. Ecco che incomincia a venir fuori un nuovo Consalvi, sicuramente fin là sconosciuto anche al medesimo.
“La diversità delle prime linee avendomi fatto con la più gran diligenza osservare tutto il rimanente, venni in cognizione, che quell’esemplare non solamente conteneva quel progetto medesimo, che il Papa non aveva voluto ammettere senza le sue emende e che aveva dato causa all’ordine della partenza da Roma dell’Inviato Francese per effetto del rifiuto del Papa, ma lo rincarava anche di più in alcuni punti, essendovi inserite alcune di quelle cose che anche prima della trasmissione a Roma di quell’ultimo progetto erano state ricusate come inammissibili.
Un tratto di tal natura, incredibile ma vero e che io non mi permetterò di caratterizzare, parlando la cosa da sè medesima, come mi paralizzò la mano che si era accinta alla sottoscrizzione, così diede luogo alla espressione delle mie meraviglie e alla decisa dichiarazione che non potevo sottoscrivere quel foglio in verun conto.
Parve che in ciò udire non fosse minore la meraviglia del fratello del Primo Console, il quale disse che non sapeva persuadersi di quello che udiva da me, avendogli detto il Primo Console che tutto era convenuto e che non altro rimaneva da fare che sottoscrivere; e siccome io persistevo in dire che l’esemplare conteneva tutt’altro che il Concordato convenuto, così non altro egli seppe replicare, se non che era tornato dalla sua campagna, dove era col Conte di Cobenzel trattando per affari dell’Austria, chiamato apposta per la cerimonia della sottoscrizzione del Trattato, di cui in fondo nulla sapeva, giungendogli tutto nuovo, e credendo di non essere stato chiamato a fare altro, che a sottoscrivere ciò che era già stato da ambe le parti concordato.
Ed io non oserei nemmeno in oggi affermare con certezza se egli in così dire diceva il vero o fingeva, come non seppi conoscerlo allora, ma io inclinai ed inclino a credere ch’egli veramente fosse ignaro di tutto; tanto egli mi parve alieno da simulazione in tutto ciò che disse e fece in tutto il corso di quella lunghissima sessione, senza smentirsi mai.
E siccome le stesse cose affermava l’altro Commissionato, cioè il Consigliere Cretet, il quale protestava egualmente di nulla sapere e che non poteva indursi a credere ciò che io dicevo sulla diversità di quell’esemplare, ad onta che io la dimostrassi col confronto del mio, così non potei fare a meno di rivolgermi con vivacità (per quanto io cercassi sempre di non dare in tutto il corso delle trattative alcuna presa, né somministrare pretesti di irritamento o mal’umore) all’Abate Bernier, dicendogli che niuno più di lui poteva attestare la verità dei miei detti e che lo ero infinitamente meravigliato dello studiato silenzio, in cui vedevo ch’egli tenevasi sull’oggetto, e che lo interpellavo espressamente a dirne ciò che gli era tanto noto.
Egli allora con volto confuso e quasi mortificato e con stentate parole disse che non poteva negare la verità di ciò che io dicevo e la diversità del Concordato, che si proponeva a sottoscrivere, ma che così aveva voluto il Primo Console, il quale aveva detto che, siccome Finché non si è sottoscritto si è sempre padroni di variare, così egli voleva quella variazione, perché, fatte migliori rifiessioni, non era contento delle cose convenute.
L’Abate Bernier ammette dunque la scorrettezza di Napoleone e, quindi, sottintesa, quella di Talleyrand, il vero artefice e consigliere di Napoleone.
Io non riferirò qui in dettaglio tutto ciò che io risposi a così singolare discorso e ciò che rilevai sulla inapplicabilità della massima enunciata di poter cioè variare Finché non si è sottoscritto, allo stato in cui era la cosa, e molto più sul modo e sulla sorpresa, con cui ciò facevasi, ma dirò solamente che risolutamente protestai che io non avrei mai sottoscritto tal Concordato, espressamente contrario alla volontà del Papa e alle mie istruzzioni e poteri e che perciò, quando per la loro parte non si potesse o non si volesse sottoscrivere quello su cui si era già convenuto, poteva sciogliersi la sessione.
Questa è la prima volta (e ve ne sarà anche un’altra nei riguardi del Fesch, zio dell’Imperatore!) che vediamo il Cardinale ammettere di essersi terribilmente arrabbiato. Talmente arrabbiato che Giuseppe, il fratello di Napoleone, ed i suoi due compagni rimasero molto impressionati dalla violenta reazione del Segretario di Stato.
In pratica ora era Giuseppe a trovarsi tra l’incudine ed il martello. Il tempo passava veloce e si doveva trovare assolutamente una soluzione. Tanto più che ormai l’articolo fatto fare in anticipo da Napoleone sul Moniteur, in cui si dava per scontato l’accordo, poteva rivolgersi contro di lui come un boomerang.
Il fratello del primo Console prese allora la parola e con il più premuroso impegno si fece a dimostrare le terribili conseguenze della sconclusione delle Trattative non meno per la Religione, che per lo Stato, e non meno per la Francia, porzione sì grande del Cattolicismo, che per tutti i Paesi dove la Francia nella decisa superiorità della sua tanto preponderante forza avesse influenza: disse che bisognava fare tutti i tentativi possibili per non fare noi, che ivi eravamo, responsabili di mali sì grandi: che bisognava provare d’intenderci e accostarci insieme per quanto fosse possibile: che bisognava farlo in quello stesso giorno, perché la conclusione del Concordato si trovava già annunziata nei publici fogli e doveva pubblicarsene la sottoscrizzione nella occasione del gran pranzo del dì seguente: che ci voleva poco a comprendere a quale sdegno e (disse anche) furore avrebbe potuto lasciarsi trascinare un carattere non avvezzo a ritegni di alcun’ostacolo, com’era quello del suo fratello, se avesse dovuto comparire agli occhi del publico come annunziatore nei suoi proprii fogli di una falsa notizia in sì grande oggetto: che perciò mi scongiurava di provare almeno se ci riescisse di combinare lì stesso la cosa e che, giacchè vedeva in me una tanto inflessibile renuenza ad intraprendere a discutere il piano contenuto nell’esemplare del Governo messo fuori dall’Abate Bernier (perché io mi ero dichiarato nelle risposte, che gli andavo dando a mano a mano, assolutamente deciso a non volere ammettere discorso su tal piano, come già rigettato dal Papa ed escluso definitivamente fin dal principio delle trattative), egli non aveva difficoltà che la discussione si intraprendesse sul piano che si conteneva nell’esemplare portato da me e già convenuto, per tentare se fosse possibile di ridurlo in maniera che potesse sperarsi che il Primo Console tornasse a prestarsi la sua adesione.
La considerazione dei riflessi esposti nel di lui discorso e la somma urbanità e delicate maniere, con cui egli parlò e replicò sempre ad ogni mia risposta, mi fecero col comune avviso degli altri due, che dovevano sottoscrivere per la parte della S. Sede, cioè del Prelato Spina e del Teologo Caselli, finalmente aderire a prestarmi all’oggetto, meno per la speranza di alcun buon successo, attesa la irremovibile mia determinazione di non dipartirmi di un solo apice dalla sostanza di quel piano, che dopo convenuto più non si voleva, che per la vista di non comparire rozzo e irragionevole nel ricusarmi a fare almeno un tentativo, che cadeva sopra un soggetto di tanta importanza e che mi si proponeva con tanta politezza.
Si prese dunque in mano il piano contenuto nell’esemplare da me recato per la sottoscrizzione e si incominciò la discussione verso le ore 5 pomeridiane. Per comprendere quanto fosse grave, quanto accurata, quanto a vicenda di qua e di là contradetta, quanto difficile, quanto penosa, basterà dire una cosa sola, cioè che senza interruzzione alcuna, senza prendere alcun riposo, durò per 19 ore continue, cioè fino alle ore 12 della seguente mattina, avendo ivi passata tutta la notte senza avere congedati mai né i domestici né le vetture, come avviene allorchè si spera d’ora in ora di terminare ciò che si sta facendo.
Erano le ore 12, o sia il mezzogiorno, ed era riescito di convenire su tutti gli articoli (meno uno solo) a tenore del piano emendato in Roma e poi concordato a Parigi con alcune modificazioni non sostanziali, ma ricusato in ultimo inaspettatamente dal Primo Console nel modo che di sopra si è detto. Non si era potuto in alcun modo convenire in un articolo, nel quale la modificazione voluta dal Governo Francese toccando la sostanza della cosa o, a dir meglio, venendo a stabilire una massima, che la S. Sede ben poteva soffrire per via di fatto (come anche altrove era accaduto e accadeva) ma non poteva mai autorizzare per via di convenzione.
Non essendosi in verun conto potuto venir d’accordo su tale articolo ed essendo l’ora in cui il fratello del Primo Console doveva indispensabilmente intervenire alla gran Parata e rendergli conto in tale occasione della seguita sottoscrizzione, sarebbe impossibile di qui riferire quali assalti io soffrissi perché mi prestassi a ciò che volevasi su tale articolo dal Governo Francese e non obligassi il fratello a recare al Primo Console il fatalissimo annunzio della sconclusione.
Niente però pote vincermi.
Egli (Giuseppe) partì, e noi ci restammo nel luogo, oppressi dalla stanchezza e dal sonno e dalle angustie, aspettando il di lui ritorno. In meno di un’ora egli tornò, annunziando nel volto la mestizia dell’animo. Egli riferì che il Primo Console era montato nel più gran furore nell’udire l’accaduto: che nell’impeto della collera aveva lacerato la carta del Concordato fra noi combinato, in cento pezzi: che finalmente alle tante sue preghiere e scongiuri e rifiessioni e ragioni erasi indotto, benchè con indicibile stento, ad assentire a tutti gli altri articoli convenuti, ma che, quanto all’articolo lasciato in sospeso, era stato quanto furioso, altrettanto inflessibile e che aveva concluso dicendogli di riferirmi ch’egli voleva quell’articolo onninamente tal quale era stato da lui fatto porre nell’esemplare recato dal l’Abate Bernier e che io non avevo che uno dei due partiti a prendere, cioè ammettere quell’articolo tal quale e così sottoscrivere il Concordato o definitivamente rompere ogni trattativa, volendo egli onninamente annunziare nel gran pranzo di quella mattina o la sottoscrizzione o la rottura.
È facile imaginare in quale costernazione ci ponesse tutti un tale annunzio. Mancavano circa 3 ore a quella del pranzo, che era alle 5, al quale dovevamo tutti comparire. Sarebbe impossibile il riferire quante cose si dissero dal fratello del Primo Console, quante dalli altri due, per indurmi a soddisfarlo.
Il quadro che fecero delle orribili conseguenze, che sarebbero nate dalla sconclusione, fu dei più spaventosi.
Mi fecero sentire di che io andava a rendermi responsa-bile, sia con la Francia e con quasi tutta l’Europa, sia col mio Committente medesimo e con Roma, dove sarei stato tacciato di durezza inopportuna, e mi si farebbe il torto subito che si provassero i terribili effetti del mio rifiuto. Io provai le vere angustie della morte.
Io vidi sotto gli occhi tutto quello che mi si diceva. Io fui, se pure è lecito il dirlo, come l’Uomo dei dolori. Ma il mio dovere vinse tutto: io non lo tradii, con l’aiuto del Cielo; e dopo due ore di un terribile combattimento, io persistei nel mio rifiuto, e la trattativa fu rotta.”
La trattativa fu rotta? Ma chi glielo faceva fare? Se il Cardinale veramente provava, come dice, le vere angustie della morte, poteva firmare e andare a casa!
Invece, rilancia e rischia veramente la vita. Visto, però, che non fu condannato, qualcuno deve aver ceduto. Ma chi? Napoleone od il Cardinale? Intanto si preparavano momenti terribili per lui, specialmente per certi suoi precedenti, come il caso Duphot, che sicuramente Napoleone non aveva dimenticato.
“Bisognava (e questa era la cosa terribile del momento) comparire fra un’ora al gran pranzo e sorbire in publico e nel primo impeto tutta la collera dell’annunzio di quella rottura che doveva fare al Primo Console il fratello.
Si tornò alla locanda per pochi momenti e, fatto in fretta l’occorrente per la decenza della comparsa, si andò coi miei due compagni alle Thuillerie.
Entrati appena nella stanza, in cui era il Primo Console, pienissima di tutti i Magistrati, Militari, Grandi dello Stato, Ministri esteri e forastieri più illustri, tutti invitati al gran Pranzo, non è difficile imaginare qual fosse l’accoglienza ch’egli mi fece, già informato della seguita sconclusione.
Non mi vide appena, che acceso in volto e con voce sdegnosa e forte mi disse: “Ebbene, Signor Cardinale, avete voluto rompere? Sia pur così. Non ho bisogno di Roma. Farò da me. Non ho bisogno del Papa. Se Enrico VIII, che non aveva la vigesima parte della mia potenza, seppe mutare la religione del suo Paese e riescirvi, molto più lo saprò e potrò far’io. Col mutarla nella Francia, la muterò in quasi tutta l’Europa, dovunque arriva l’influsso del mio potere. Roma si accorgerà delle perdite che avrà fatte e le piangerà quando non ci sarà più rimedio. Voi potete partire, non essendoci altro da fare. Avete voluto rompere, e sia pur così, giacchè lo avete voluto.”
E cosa fa il Cardinale? Risponde!
“A queste parole, dette in publico e col tuono il più vivo e forte, risposi che io non potevo né oltrepassare i miei poteri né convenire in cose che fossero contrarie ai principii che professa la S. Sede: che nelle cose ecclesiastiche non si può far tutto quello che in casi estremi può farsi nelle temporali: che ciò non ostante non mi sembrava che potesse dirsi che si vosse voluto rompere dalla parte del Papa, subito che si era convenuto in tutti gli altri articoli, alla riserva di uno solo, sul quale avevo proposto di consultare il Papa stesso, né i suoi Commissionati avevano da ciò dissentito.
Egli mi interruppe, dicendo, che non voleva lasciare niente d’imperfetto e che o voleva concludere sul tutto o niente.
Replicando io che non avevo facoltà di concludere sull’articolo sospeso volendosi che fosse precisamente tal quale si proponeva e non ammettere alcuna modificazione, rispose vivissimamente che lo voleva tal quale, senza una sillaba né di meno né di più; e replicando io che così non lo avrei mai sottoscritto, perché non lo potevo in conto alcuno, egli ripetè: per questo io dico che avete voluto rompere e considero l’affare per terminato, e Roma se ne accorgerà e piangerà a lagrime di sangue questa rottura.
E in così dire, vedendosi vicino il Conte di Cobenzel, primo Ministro Austriaco, si rivolse a lui con gran calore e gli disse a un di presso le cose medesime, che a me avea dette, ripetendo più volte che avrebbe fatto cambiare la maniera di pensare e la religione in tutti i Stati d’Europa e che niuno avrebbe avuto la forza di resistergli e che non voleva sicuramente esser solo nel se passer de l’Eglise Romaine (per servirmi della sua medesima frase), concludendo che avrebbe messo il fuoco dalla cima al fondo dell’Europa e che il Papa ne avrebbe avuto la colpa e la pena ancora.
E così dicendo si mischiò bruscamente nella folla dei convitati, dicendo con molti altri le cose medesime.
Il Conte di Cobenzel costernatissimo mi si avvicinò subito e prese a pregarmi e scongiurarmi, perché trovassi qualche modo di evitare tanta rovina, dipingendomene le purtroppo sicure conseguenze per la Religione e per lo Stato nella Europa tutta.
Risposi che purtroppo le vedevo e me ne doleva, ma che niente potrebbe mai farmi fare ciò che non mi era lecito di fare.
Egli diceva che comprendeva bene che io aveva ragione di non volere tradire i miei doveri, ma che non comprendeva come non si potesse trovare qualche modo di conciliare la cosa e venire d’accordo, non cadendo più in questione che un solo articolo.
Risposi che era impossibile di venire d’accordo e conciliare la cosa, quando ostinatamente si voleva che neppure una sillaba si togliesse o aggiungesse all’articolo in questione, come protestava il Primo Console, giacchè in tal modo non poteva realizzarsi ciò che suol dirsi e farsi in tutte le trattative, cioè che, col farsi da ambe le parti qualche passo, si finisce poi per incontrarsi insieme.
In questo mentre si vide aprire la stanza del pranzo e si passò alla tavola, ciò che troncò ogni discorso.
Finì brevemente quel pranzo, di cui è facile imaginare che io non avevo mai gustato il più amaro, e, ritornati alla stanza di prima, il Conte di Cobenzel riprese con me l’interrotto discorso.
Il Primo Console, vedendoci parlare insieme, si avvicinò a noi e, indirizzando le parole al Conte di Cobenzel, gli disse che perdeva il suo tempo, se sperava di vincere la ostinazione del Ministro del Papa, ripetendo con la stessa vivezza e forza alcune cose dette precedentemente.
Il Conte di Cobenzel rispose che lo pregava di permettergli di dire che non trovava ostinazione nel Ministro Pontificio, anzi un vivo desiderio di conciliare le cose, con gran dispiacere di rompere, ma che per conciliarle il solo Primo Console poteva aprirne la via.
E come? replicò egli vivamente.
Il Conte di Cobenzel disse, col permettere una nuova sessione fra i respettivi commissionati e contentarsi che si provasse se si potesse TROVARE IL MODO DI fare qualche variazione nel controverso articolo, la quale venisse di soddisfazzione di ambe le parti e che egli si lusingava che la di lui brama di dare la pace all’Europa, come aveva spesso detto, lo indurrebbe a smontare dalla determinazione di non volere che niuna sillaba si aggiungesse o si togliesse da quell’articolo, tanto più che era veramente una gran disgrazia il fare sì gran rottura per un articolo solo, essendo già combinati tutti gli altri.
Questo discorso del Conte di Cobenzel, accompagnato da altre espressioni tutte proprie di un vero uomo di Corte, esemplarmente gentili e lusinghiere, nel qual genere egli era abilissimo, fece sì che il Primo Console, dopo qualche renuenza, rispondesse: ebbene, per farvi vedere che non sono io che voglia rompere, mi contento che dimani i commissionati si uniscano per l’ultima volta e vedano se è possibile di conciliare la cosa, mal separandosi senza conclusione, la rottura s’intenderà fatta e il Cardinale se ne potrà andare. Io mi dichiaro però che quell’articolo LO VOGLIO ASSOLUTAMENTE TAL QUALE E NON AMMETTO cambiamenti.
E così dicendo, ci voltò le spalle.
Sebbene il di lui discorso fosse contradittorio, dicendo che potevamo riunirci per vedere se era possibile di conciliare la cosa e dicendo al tempo stesso che voleva quell’articolo tal qual’era, ne ammetteva cambiamenti, il che escludeva la conciliazione, pure si fu tutti d’accordo di profittare del permesso di riadunarsi e di vedere se riesciva di convenire in qualche modo fra i Deputati, nella speranza (se ciò accadesse) che riescisse poi al di lui fratello Giuseppe di farcelo convenire.