Scarica PDF

1798, la beffa!

1798
LA BEFFA
Questo episodio l’ho intitolato, quasi scherzando, “la beffa”, perché il Cardinale, che pensava ad un certo punto di essersi salvato ed ormai ad un passo dalla agognata libertà, viene improvvisamente ricondotto a Roma, grazie all’intervento dei suoi amici, i Principi Patrizi e Ruspoli.
Io era intanto rimasto nel Castello S. Angiolo. Io aveva intanto avuto la fortuna di trovare nel forte un comandante, che ha tutti i diritti alla mia gratitudine. Essendo un uomo onestissimo e onoratissimo e disinteressatissimo, era anche un uomo umanissimo. Mi prese in una affezzione particolare e alleggerì quanto poté dal canto suo l’acerbità della mia situazione. Si interessò spesso, benché inutilmente, per il disbrigo del mio affare. Veniva ogni sera nella mia camera e giocavamo a picchetto di niente. Io non avevo un soldo e tutto ciò che avevo di mobili e altro era degli amici, perché tutto il mio era sotto le biffe e il sequestro.
Mons. Ercole Consalvi sapeva giocare a “picchetto”!
Così passarono 43 o 44 giorni, quando improvisamente nell’atto ch’ero a pranzo venne un uffiziale e postomi nel suo legno mi condusse dal Castello al già monastero delle Convertite, dove mi lasciò. Vi trovai un Cardinale e varii prelati: ed udii dai medesimi che in quella stessa notte si doveva partire per Civitavecchia, dove già trovavansi 7 o 8 altri Cardinali e varii prelati, insieme coi quali si doveva poi far vela per l’America, rilegati nell’isola de la Cayenne.
È facile imaginare quanto fui colpito da sì improviso annunzio e da una destinazione di tal natura. Ne furono pure colpiti vivaniente i miei amici, fra i quali era la casa Patrizii.
Si dava la combinazione che il Generale capo abitava in casa Ruspoli, fra cui e i Patrizii passava una stretta parentela e i stessi Ruspoli erano pure amici miei.
Fecero dunque essi tutti col massimo ardore i massimi sforzi per farmi esentare da quella destinazione, motivando la mia salute, a cui un viaggio di mare sì lungo sarebbe stato fatalissimo. I loro sforzi allora riescirono inutili e, giunta la notte, fummo tutti posti in legno e condotti a Civitavecchia sotto la scorta di un grosso distaccamento di cavalleria francese. Io partii col mio abito nero e con pochi scudi datimi dalli amici in quei brevi momenti e nella loro estrema povertà.
Giunti a Civitavecchia nel dì seguente, fummo collocati nello stesso Convento in cui si trovavano gli altri Cardinali e prelati detti di sopra. Ciò accadde verso i 25 marzo, non sovvenendomi con precisione tali epoche. Dopo due giorni, ecco che in una mattina fummo radunati per esserci letta la sentenza del Direttorio.
Eravamo come i condannati al patibolo nell’udire la loro sentenza di morte, da cui la relegazione alla Cayenne assai poco differiva.
Ma, fortunatamente per loro tutti, la sentenza di relegamento alla Cayenne viene tramutata in esilio perpetuo dall’ex-Stato Pontificio. Grande fu la loro gioia.
Ma che o fosse falsa la voce che se n’era sparsa, o ci fosse stato, come si assicurò, un cambiamento d’ordine, la sentenza diceva in sostanza che eravamo tutti condannati alla deportazione per mare fino al luogo che ciascuno sceglierebbe con perpetuo bando dalli Stati della Republica Romana e con pena di morte se vi rientrassimo.
Questa sentenza fu ricevuta come la grazia della vita dai condannati al patibolo. La gioia fu universale e niuno poteva mai lusingarsi della libertà della scelta del luogo della sua deportazione.
Io scelsi subito Livorno, noleggiai un legno con l’aiuto di un negoziante amico, che avevo in Civitavecchia, e mi accinsi alla partenza il primo di tutti, cioè in quel giorno medesimo.
Ma, grazie all’aiuto dei suoi amici Patrizi e Ruspoli, …
Ma la cattiva fortuna mi riserbava a tutt’altro. Ero quasi al punto di partire quando un corriere giunto da Roma recò l’ordine che, lasciandosi partire tutti gli altri, io solo fossi ritenuto e rimandato a Roma.
Fui colpito da tale ordine, come dal fulmine. Benché non sapessi a cosa ero destinato, compresi però assai bene che la cosa non poteva essere che dannosa per me.
L’ordine venuto da Roma fu un effetto dei buoni officii dei Patrizii e dei Ruspoli, che per mia disgrazia avevano finalmente prevalsuto presso il Generale in capo per risparmiarmi il viaggio maritimo.
Così quelli miei buoni amici mi rendevano involontariamente un pessimo servigio. Se si fosse dovuto andare alla Cayenne, il servigio da essi rendutomi era inapprezzabile, ma, nella destinazione datami dalla sentenza accennata di sopra, il loro servigio mi privava della libertà ottenuta e mi rimetteva in nuovi guai.
Trafitto fino all’anima da sì fatale colpo, il quale mi aveva levato il bicchiere quando era alle labbra, come a Tantalo (grande!), partii da Civitavecchia con lo stesso distaccamento di cavalleria, che ci aveva scortati, e, giunto a Roma, mi vidi inaspettatamente ricondurre nel forte.
Il comandante, che era stato afflittissimo della mia partenza credendo che andassi a la Cayenne, fu rapito dal piacere del mio ritorno e mi fece l’accoglienza la più amorosa. Ma quando udì i miei casi, divise con me il mio dolore e mi dimostrò una compassione e un interesse, che sarà fisso nella mia memoria e nel mio cuore finché avrò vita.
È facile imaginare qual fosse anche il dolore di quelli miei amici, che con 1’idea di farmi del bene videro poi di essermi stata causa innocente di tanto male.
A questo punto vorrei inserire una lettera di protesta del Cardinale, dal sottoscritto ritrovata il 22 ottobre 2005 nell’archivio di Propaganda Fide nel faldone n. XXXIII.
Sono sorpreso che il Cardinale, così preciso nei suoi ricordi, non ne parli nelle sue memorie.
Roma, Castel di Angelo 15 marzo 1798
Essendo io tornato da Civitavecchia pochi momenti sono, e rientrato in questo Castello di Angelo, ed avendo saputo in questo punto, che il Cittadino Ruspoli per ottenere dal Senato in carica la sospensione della mia deportazione da Civitavecchia e il potermi giustificare abbia fatto una supplica in mio nome, sotto la dettatura del suo aiutante Maggiore, in cui si legge l’espressione DI NON AVER IO PARTECIPATO ALLE INGIUSTIZIE DEL PASSATO GOVERNO, sono obbligato dal mio onore, e dalla verità, a riprovare quella espressione, e a dichiarare, che è stata adoperata dal detto cittadino senza alcuna mia commissione, e saputo, nel tempo, che io era fuori di Roma, e detenuto in Civitavecchia, e perché apparisca quanto fin qui ho esposto, ho subito fatto la presente dichiarazione di mio proprio pugno alla presenza di due testimoni, in questo stesso giorno 15 marzo 1798.
                                                                ERCOLE CONSALVI mano propria
                                                                NICCOLA BRUNATI fui testimone
                                                                GIOVANNI LUELLI fui testimone
Appena tornato da Civitavecchia, quindi, il Cardinale non perde tempo e, nonostante sappia benissimo a cosa vada incontro, provvede subito a smentire quanto dichiarato dal suo amico, il Principe Ruspoli, il quale, a sua volta, era stato “invitato”, se avesse voluto salvare l’amico, a scrivere quella frase, che invece era ritenuta altamente disonorevole dal mio avo.
Conosco i due testimoni. Brunati era l’avvocato di famiglia e Suelli era un suo “famiglio”, che rimarrà con lui finché vivrà. Solo che non sapevo che fosse già a quei tempi al suo servizio. L’avv. Brunati Niccola, invece, lo si trova citato anche nella relazione nella causa Negroni contro Propaganda Fide per l’eredità Consalvi, ma lì lo si trova nominato, per errore, anche come Niccola Brunacci.
Torniamo al Cardinale: purtroppo per lui il clima a Roma era cambiato. Se ne era subito reso conto: “ma il mio ritorno, di cui il publico di Roma, com’è naturale, non ben sapeva la semplicissima cagione, mise in malumore e in rabbia molti dei giacobini e specialmente i Consoli d’allora
I Consoli di cui il Cardinale parla erano quelli del 17 marzo, proclamati nel 20 successivo: Liborio Angelucci da Roma, Giacomo Matteis da Frosinone, Panazzi da Ancona, Reppi da Ancona, Ennio Quirino Visconti da Roma. I primi consoli del febbraio, invece, erano stati: Francesco Riganti, Pio Bonelli, Carlo Luigi Costantini, Antonio Bassi, Gioacchino Pessuti, Giovan Francesco Arrigoni.
Del resto doveva aspettarselo. Egli come Assessore militare del Governo Pontificio aveva fatto arrestare molte persone, alcune delle quali, poi, erano state nominate addirittura Consoli della Repubblica Romana.
Potevano essi non desiderare di vendicarsi? All’ex-Assessore militare del Governo Pontificio era tutto talmente chiaro, che non poteva fare a meno di ammetterlo realisticamente.
Gli arresti che sotto il Governo Pontificio erano stati fatti dal Militare di varii fra loro (e ve n’era qualcuno delli attuali Consoli), mi avevano suscitato molti nemici, benché io fossi stato semplice esecutore delli ordini ricevuti, ed essi, nella ubbriachezza della loro prosperità e comando, non sognavano che vendette.
Si diedero essi dunque tanto moto e si adoprarono tanto a mio danno, che le mie cose peggiorarono a dismisura in quelli fatali giorni.
Inutilmente io reclamavo la esecuzione del decreto del Direttorio, publicato in Civitavecchia ecc., che mi condannava alla deportazione dallo Stato Romano, di cui mi dichiaravo contentissimo: inutilmente domandavo di essere ricondotto a Civitavecchia, d’onde ero stato richiamato per una istanza non mia, né da me autorizzata, assoggettandomi alla deportazione per mare con la scelta libera però der luogo a tenore del decreto e della mia dichiarazione per Livorno.
Tutto fu inutile, specialmente per la disgraziata combinazione del richiamo accaduto in quei giorni del Generale in capo. Il Generale sostituitogli (che era il Gen. S. Cyr) ignaro dell’accaduto col suo predecessore sul mio conto e nuovo nell’affare non voleva decidersi senza cognizione di causa e contro le informazioni, che con falsità e malignità gli dava sopra di me il Governo consolare.”
Una cosa continuo a chiedermela: ma per i “Consoli Romani”, di questa prima Repubblica Romana, perché era normale che i Francesi spogliassero Roma delle sue opere d’arte? La Repubblica Romana non succedeva allo Stato Pontificio?
Secondo logica giuridica, tutto ciò che era stato dello Stato Pontificio passava alla Repubblica Romana e non a quella “liberatrice” francese.
Lo Stato Pontificio non era stato, fino a cinque minuti prima, l’unico Stato Italiano mai soggetto ad occupazione straniera per ben 1500 anni? Popoli “predoni” sì ve ne sono passati a Roma più di uno (Vandali, Lanzichenecchi, ecc.), ma erano aggressioni e non avevano la pretesa di portare la libertà.
Quindi, ripeto, perché i detti Consoli romani hanno permesso lo “spostamento” (lo vogliamo chiamare così?) delle nostre opere d’arte da Roma a Parigi in cambio della libertà dal Governo Pontificio?
Qualunque sia la risposta, Roma dovrebbe oggi ringraziare chi è andato a riprenderle (purtroppo solo una piccolissima parte), ma questo lo approfondiremo in un prossimo capitolo.
Nel frattempo, le cose per Mons. Ercole Consalvi si mettevano male.
I sforzi dei miei amici e quelli del povero mio fratello Andrea non giovarono a nulla.
Erano ormai due anni che non si sentiva più parlare del fratello Andrea, che nel frattempo avevamo lasciato a Modena. Andrea, nel momento in cui viene a sapere del capitale pericolo che incombe sul fratello rimasto a Roma, non ci pensa due volte e lo raggiunge anche a suo rischio e pericolo.
Io devo qui pagare un tributo di gratitudine alla di lui onorata e cara memoria. Da alcuni anni prima della rivoluzione in Roma egli se ne trovava assente, essendosi dato a viaggiare, avendone la stessa passione, che io ne avevo. Egli si trovava in Venezia quando accadde in Roma la rivoluzione, la di cui notizia gli giunse colà insieme con quella del mio arresto. Non ascoltando che il suo amore per me, egli volò a Roma ed io me lo vidi comparire all’improvviso un giorno nella mia stanza nel tempo della mia prima detenzione nel Forte, cioè prima che ne escissi per essere trasportato a Civitavecchia.
Bisogna ammettere che si tratta di una bellissimo episodio! Onore ad Andrea, che, nonostante il grandissimo pericolo, raggiunge il fratello prigioniero a Castel S. Angelo. Girare per Roma in quel momento sicuramente non era molto salutare. Se fosse stato riconosciuto come fratello dell’Assessore militare, in quel momento caduto in disgrazia, chissà cosa sarebbe potuto accadergli. Tanto è da ammirare, quindi, il coraggio di Andrea, altrettanto è da ammirare la preoccupazione del Cardinale nei confronti del fratello.
Quanta gioia avrei provata nel rivederlo e riacquistarlo in ogni altra circostanza, altrettanto mi trafisse il suo ritorno in quel momento. Mi fu impossibile nel primo momento di non dimostrargli un vivo disgusto, anzi che gradimento e piacere, come egli meritava venendo ad esporsi a tutti i pericoli e a tutti i mali della rivoluzione da cui fortunatamente si trovava fuori, fino a non potere nemmeno essere considerato come emigrato, attesa la sua assenza da più anni innanzi, solo per assistermi e aiutarmi nella posizione in cui mi trovavo. La considerazione appuntò dei pericoli ch’egli correva coll’esser tornato (pericoli accresciuti anche dall’esser fratello di chi era non solo sospetto, ma odioso al nuovo governo) mi rendeva amarissima la risoluzione da lui presa, appunto perché io l’amavo più di me stesso e perché non solamente vedevo con ciò togliermisi il solo conforto che avevo nella mia disgrazia vedendo lui in sicuro, ma vedevo anzi aggiungermi si pene a pene con la partecipazione dei pericoli, che egli veniva ad incontrare per amor mio.”
Il Cardinale invita Andrea a ripartire ed a mettersi in salvo, ma ne ottiene un rifiuto!
Trasferito il Cardinale a Civitavecchia, Andrea rimane a Roma, dove lo ritroviamo di nuovo quando il Cardinale vi viene ritrasferito.
Come egli non aveva risparmiato né cure, né fatiche nel tempo della mia prima detenzione, così non le risparmiò nella seconda, ne mi sarebbe possibile il riferire quanto egli agisse per me, benché senza il desiderato successo.”