Il "caso" Brancadoro ebbe un peso decisivo nei rapporti tra Papa Braschi ed il giovane Consalvi.
Ma, lasciamo che sia lo stesso Cardinale a raccontarci l’episodio.
BRANCADORO, il DUCA di YORK, PIO VI ed il CONSALVI
“Mi accadde un dispiacevole contrattempo, rapporto al vicariato della Basilica di S. Pietro – prosegue il Cardinale nelle sue Memorie. Essendo vacante questo vicariato per la promozione di Mons. Zondadari (poi Cardinale) all’arcivescovado di Siena, il Card. Duca d’York arciprete, a cui ne apparteneva la libera collazione, per la bontà, che per me aveva, e senza mia richiesta, subito me lo conferì. Oltre il lustro di essere vicario di un Capitolo così rispettabile e in una tal Basilica, vi era il cospicuo emolumento di mille scudi annui, che il Card. Duca rilasciava a favore del suo vicario, provenienti dalla sua prebenda.
Il Papa, che amava molto Mons. Brancadoro (poi Cardinale, 1755-1837 Fermo), Nunzio in Bruselles e destinato appunto allora a tornare a Roma, Segretario di Propaganda in luogo di Mons. Zondadari, desiderava che quel vicariato fosse dato a Mons. Brancadoro appunto per provvedere anche più ai di lui bisogni con quella annua provista di 1000 scudi. Non udì dunque con piacere la mia scelta, non perché avesse scemato la sua bontà per me, ma per l’anzidetto motivo.
L’uso che gli Uditori di Rota dimettevano i canonicati che avevano, come incompatibili con lo studio e occupazioni rotali, gli fece nascere l’idea che fosse incompatibile anche il vicariato, il quale pure aveva annesso l’intervento al coro, se non quotidiano, almeno nei giorni festivi. Per accertarsene fece chiamare l’archivista del Capitolo (che era uno dei beneficiati) e gli ordinò di ricercare nell’Archivio se alcun Uditore di Rota fosse mai stato vicario in quella Basilica, «cosa, aggiunse, che Noi non crediamo, sembrandoci incompatibile».
L’archivista incominciando le ricerche dalli ultimi tempi, trovò l’ultimo esempio nel tempo del Card. Annibale Albani, arciprete di S. Pietro, che avendo per suo vicario Mons. Mattei, questo nell’essere fatto Uditore di Rota dimise il vicariato. Ciò bastò all’archivista, ben contento di portare una risposta uniforme alla idea manifestatagli dal Papa, e, senza darsi la pena di svolgere alcun’altra pagina per osservare gli altri esempii e senza indagare nemmeno se quella rinunzia del vicariato fosse stata fatta dal Mattei volontariamente e per altre cause, che quella della pretesa incompatibilità, corse a dire al Papa che egli aveva indovinato e pensato benissimo che un Uditore di Rota non poteva essere vicario, come si vedeva nel fatto di Mons. Mattei.
Tanto bastò al Papa per iscrivere una lettera al Card. Duca d’York, dicendogli che essendogli giunto a notizia che pensasse a far suo vicario in S. Pietro Mons. Consalvi, gli faceva osservare che questo prelato non poteva esserlo, non per alcun demerito personale, avendo egli anzi dimostrato sempre il conto che ne faceva e la affezzione, che aveva per lui, ma perché, essendo Uditore di Rota, la cosa era incompatibile, come anche l’esempio di Mons. Mattei provava evidentemente; per il che si affrettava a notificargli tutto ciò prima che mi si facesse da lui la collazione, che non potendo sussistere, si dovrebbe revocare, con dispiacere, dopo fatta.
Il Papa non aggiungeva una sillaba sul suo desiderio che fosse scelto Mons. Brancadoro, imaginando, cred’io, fin d’allora di prendercisi poi, rimosso che fosse il mio ostacolo, in una maniera che avesse l’apparenza di togliere al Card. Duca la libertà della collazione, ch’era di sua pertinenza. Il Card. Duca soffrì acerbissimamente questo contrasto al gran piacere di aver me per suo vicario e, nella vivacità del suo carattere, fece nel momento una rispettosa, ma convincentissima memoria, nella quale dimostrava fino alla evidenza la insussistenza della pretesa incompatibilità e la differenza che passava fra il canonicato che esige il servizio quotidiano, e il vicariato, che solo per uso lo esigeva nei soli dì festivi: rilevava le circostanze che indussero il Mattei alla dimissione, che non provennero dalla pretesa incompatibilità, ma dal non avere avuto il Mattei alcun interesse di continuare con suo incomodo nel vicariato che non gli era di alcun lucro, perché il Card. Annibale Albani non gli rilasciava i mille scudi della prebenda, come egli faceva: e numerava molti esempii di vicarii di S. Pietro Uditori di Rota, rilevando la negligenza di chi si era arrestato alla prima pagina senza darsi la pena di svolgere quelle altre che fornivano esempii tutti diversi da quello che si era prodotto; e finalmente diceva che avendo già spedito a me il biglietto di nomina (e così era veramente) prima di ricevere la lettera di Sua Santità, non credeva che fosse la intenzione della Santità Sua che la ritirasse, subito che la pretesa incompatibilità non sussisteva e che la mia persona non era ingrata al S. P., il quale anzi aveva sempre mostrata tanta clemenza a mio riguardo.
Nel trasmettere da Frascati, ove egli risiedeva, questa memoria a Roma, per essere data al Papa, egli aveva ordinato che prima mi si facesse leggere, senza però che io dimostrassi di nulla averne saputo. Appena con la lettura di questa memoria io rimasi informato della opposizione del Papa che ignoravo, io riflettei subito che dando corso alla memoria io sarei senza dubbio il vicario della Basilica di S. Pietro, perché le ragioni erano sì evidenti, che il Papa non poteva non ammetterle; ma riflettei ancora che l’animo del Papa ne sarebbe rimasto sommamente ferito, sì perché andava a svanire la provista ch’egli tanto desiderava di procurare a Mons. Brancadoro, sì perché la dimostrazione della insussistenza di quella incompatibilità, ch’egli aveva sostenuta con tanta asseveranza non poteva non urtare in qualche modo il di lui amor proprio. Io riflettei ancora che essendo io stato beneficato del Papa non dovevo corrispondergli con procurargli un disgusto. Io dunque trattenni il corso della memoria e corsi a Frascati per ottenere (come ottenni dopo un grandissimo stento) che il Card. Duca abbandonasse l’impegno.
Egli ne restò sì amareggiato, che non volle pensare a nominare altri, dicendo che non voleva che il Papa senza nessuna bùona ragione si opponesse nuovamente all’uso dei suoi diritti. Chiunque ha conosciuto quanto egli era vivo e quanto sensibile ad ogni contrarietà ai suoi voleri, specialmente quando si trattava di persone da lui predilette, facilmente comprenderà come potesse accadere il fin qui detto.
Quanto a me, io fui sopra ogni credere contentissimo di essere riuscito nell’averlo fatto desistere sul conto mio. Non lascierò di confessare però che, sebbene il rispetto e la gratitudine verso il Papa non mi avessero fatto bilanciare un momento sul partito che presi, non per questo la perdita di quella qualifica, che per il mio trasporto per la Basilica Vaticana mi piaceva assaissimo, e la perdita ancora di annui 1000 scudi, che nella grande mediocrità delle mie rendite mi fornivano molti comodi e agiatezza, che mi mancavano, mi furono sommamente sensibili.
Non terminerò questo articolo senza dire che in questo stesso affare il mio cuore provò nel suo fine una soddisfazione che a chiunque conosca una certa delicatezza di pensiero non è difficile di concepire. Io ebbi il piacere di essere io medesimo il mezzo, per cui il Papa conseguì l’effetto delle sue brame. Dopo qualche tempo, egli, sapendo quanta mano io avevo col Card. Duca e desiderando riuscire nel suo intento senza avere la minima apparenza di violare i di lui diritti, mi fece chiamare e mi disse che essendo vacante il vicariato della Basilica di S. Pietro da qualche tempo, bisognava che il Card. Duca pensasse a conferirlo; che ciò era della di lui pertinenza e che egli non voleva entrarci affatto, ma che bisognava che il Card. Duca se ne occupasse, onde che io gliene scrivessi.
Io non avevo saputo indovinare nel corso della mia remozione da quel posto qual fosse la persona, per cui il Papa avesse premura, ma avevo ben saputo capire che egli aveva una premura, che per delicatezza e per arte nascondeva.
Io compresi nel momento che sotto quella chiamata v’era un occulto fine e che si voleva fare strada per conseguire ciò che si voleva senza però voler dimostrare di volerlo. Io risposi che avrei subito scritto al Card. Duca nel modo che Sua Santità mi ordinava, ma che prevedevo con certezza la di lui risposta, cioè che ben sapendo Sua Altezza Reale quanta affezzione aveva conservata il S. P. per il Capitolo Vaticano di cui era stato membro e quanto frequenti relazioni ci aveva per mezzo del vicario, in assenza dell’arciprete, che dimorava fuori di Roma, il desiderio dell’A. S. era di scegliere una persona, che fosse grata più particolarmente a Sua Santità e che perciò l’avrebbe supplicata di degnarsi di indicargliela.
«Se Vostra Santità, aggiunsi, si degnasse di darmene qualche cenno, io potrei farlo conoscere al Card. Duca nella stessa lettera e così si accorciarebbe il tempo della esecuzione della cosa, giacché senza di ciò sono sicurissimo che la risposta, che avrò, sarà quella che ho predetta a Vostra Santità. Mi rispose con quel suo tuono di vivezza e d’enfasi: «Oh no certamente; Noi non accenneremo mia chicchessia, avendo per massima di non usurpare mai né direttamente, né indirettamente i diritti altrui e di lasciare tutti in pienissima libertà.»
Fermo io nel mio pensiere che gradirebbe per dir così gli si forzasse la mano acciò si esternasse in qualche modo, replicai che il Card. Duca conosceva pienamente la delicatezza di Sua Santità, che, potendo comandare come padrone di tutto, si asteneva in tali cose anche da ogni più lontano indizio acciò non fosse preso per un suo volere e desiderio, ma che io potevo assicurare S. Santità (e ciò era verissimo dopo la mia esclusione) che il Card. Duca non aveva premura particolare per alcuno e che, in tale indifferenza del di lui animo per una o un’altra persona e nel sommo desiderio che aveva anche per il bene del Capitolo di sciegliere uno che riescisse grato a Sua Beatitudine, sarebbe stata una vera grazia che Sua Santità gli avrebbe fatta, se, con indicare in qualche modo quale persona potesse esserle più accetta, avesse tolto di angustia il Cardinale e determinate le di lui incertezze, e che io speravo che Sua Beatitudine volesse fare questa grazia al Card. Duca, sapendo quanta bontà e tenerezza aveva per lui.
Il Papa mi rispose «Lei è ben curioso: Ci vuole fare quasi per forza smontare dal nostro sistema: pure lo faressimo per il Card. Duca, ma ci troviamo imbrogliati anche Noi e non sapressimo chi accennargli»; e dicendogli io allora che, giacché aveva la clemenza di così esprimersi, poteva degnarsi di pensarvi e che io sarei tornato in altro giorno ai suoi piedi per tale oggetto, replicò con aria fredda e indifferente: «ebbene, vedremo…, e qui avendo l’aria come di pensare, soggiunse: «Ci sembra che una volta il Card. Duca mostrasse della parzialità per quel Mons. Brancadoro, che è Nunzio in Bruselles e che viene fra poco a Roma segretario di Propaganda; crederebbe Lei che questo potesse piacergli? Giacché, lo ripetiamo, è suo diritto e deve contentare se stesso e non pensare a Noi, che siamo indifferentissimi.»
Compresi tutto nel momento e risposi che era verissimo che il Card. Duca aveva molta parzialità per M. Brancadoro e che andavo a suggerirglielo subito, con la certezza che lo farebbe al momento combinandocisi la sicurezza che le tante beneficenze usate a quel prelato dalla Santità Sua davano al Card. Duca per credere che le sarebbe accetto.
Rispose: «Noi ripetiamo che non ci vogliamo entrare e che il Card. Duca deve soddisfare se stesso in una cosa che è di pieno suo diritto»; e così mi licenziò.
Io feci sapere tutto nella giornata al Card. Duca ed ebbi il piacere che si arrendesse alla mia preghiera, cioè che mi incaricasse a tornare dal Papa per dirgli che facendo uso della libertà, in cui il S. P. voleva decisamente lasciarlo si era determinato a sciegliere M. Brancadoro, lusingandosi al tempo stesso che non fosse per dispiacergli una persona su cui aveva versate tante beneficenze.
Quando io la mattina seguente fui a portargli questa risposta, mi disse: «Ha fatto una buona scelta: Noi ne abbiamo tutto il piacere ed egli se ne troverà ben servito: gli scriva ciò per parte nostra».
Così terminò questo affare, che mi è sembrato di qualche interesse o curiosità, per il modo con cui lo condusse il Papa, per parlarne alquanto in dettaglio. Io rimarcai che in nessuna delle mie udienze, che mi diede non brevemente su ciò, mai gli escì di bocca una sola sillaba che avesse relazione a quanto era accaduto sul mio conto in quel medesimo oggetto.”
Non terminerò di parlare del Card. Duca, senza qui riferire un altro affare, che ebbi con il medesimo circa quella epoca. Egli pensò a fare il suo testamento, facendo suoi eredi fiduciarii me e il canonico Cesarini rettore del suo seminario, comunicando ad ambedue le sue intenzioni. Erano annui 600 scudi per lui, finché vivesse e 6000 scudi per me per una volta. Fattigli i dovuti ringraziamenti per tanto onore e per tanto generosa bontà, gli dissi che accettavo la fiducia per la eredità, ma che quanto al legato dei 6000 scudi, bastandomi l’onore e la memoria che la stessa fiducia dimostrava che aveva di me lo pregavo di dispensarmi dall’accettarlo e di disporne piuttosto in aumento delle sue beneficenze verso i suoi familiari che lo servivano con tanto zelo ed attaccamento.
Essendo montato in molta collera e proibendomi di proseguirgli il discorso di questo rifiuto, a cui disse che non avrebbe condisceso mai, dovetti tacermi e tentare la via dello scritto, e così feci con una lettera assai delicata e rispettosa, ma ragionata e decisa. La di lui risposta in iscritto fu come era stata quella datami in voce e, riprotestando che mai aderirebbe alla mia domanda, concluse con dire che se gliene avessi riparlato o scritto, si stimerebbe grandemente offeso e non mi avrebbe mai più veduto. Convenne tacere, ma il mio pensiero non fu deposto.”