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1810, l’Imperatore ed il Cardinale si scontrano di nuovo pubblicamente

10 febbraio 1810
di nuovo l’incontro-scontro tra il Consalvi
e l’Imperatore
Napoleone Bonaparte
.

   Dopo un mese circa dal suo arrivo a Parigi, l’Imperatore dà un ricevimento.
Erano passati quasi 10 anni dall’ultima volta che si erano incontrati al tempo della firma del Concordato. Purtroppo, in questi dieci anni, il Cardinale Fesch, zio dell’Imperatore, non aveva smesso mai un minuto dal presentarlo al Nipote come l’artefice principale dei problemi fino ad allora avuti con la Santa Sede.
Questo incontro-scontro avrà conseguenze nefaste per il Cardinale, ma intanto esso ebbe una risonanza incredibile in tutto l’Impero. Tutti ne vennero velocemente a conoscenza.
Eccoli, dopo 10 anni di nuovo l’uno di fronte all’altro.
“Ma pure mi si riserbava un'altra prova di gran lunga maggiore, cioè il ricevimento dell'Imperadore. Io avevo sempre avuto, malgrado tutto lo sdegno e il mal'animo da lui dimostrato contro di me, fino a farmi saltare, come suol dirsi, dal Ministero, un presentimento che io sarei stato ricevuto, anzi che male, assai bene e nel mio viaggio questo pensiero era stata la mia più acuta spina al cuore, considerando il danno che avrebbe potuto farmi nella opinione pubblica la buona accoglienza di chi godeva di tutt'altro che della publica opinione e amore.
La mia apprensione d'un buon ricevimento aveva questi fondamenti. Io sapeva che l'Imperadore, per carattere, teneva molto alle prime impressioni e la prima impressione concepita di me era stata la più favorevole, avendo io fatto il Concordato. Ciò era si vero, che tutte le volte ch'egli aveva fatto delle lagnanze amarissime sul conto mio, si era però servito sempre di certe espressioni (cioè che io avevo perduto la testa e simili), le quali indicavano che in fondo egli credeva che io non fossi più quello di prima, non che io fossi per natura, o per massima, contrario al suo pensare.
In secondo luogo, il favore grandissimo, che io godevo appunto, come ho detto di sopra, presso i suoi Ministri e presso tutti quelli Francesi, che mi avevano conosciuto (per le considerazioni dette di sopra), aveva fatto sì che, nella rovina ogni giorno maggiore delle cose della Francia con Roma, aveva egli sentito spesso, e forse sempre, ripetersi da tutti i suoi che la mia remozione dal Ministero era stata fatale e che, se io mi ero ricusato a quelle cose che non mi credevo permesse, non ero però ciò ch'essi (falsamente) chiamavano un fanatique e che non mi ricusavo mai a ciò che potevo e che la sola invidia ed odio del Card. Fesch mi avevano dipinto con colori troppo alterati e ch'egli, con procurare o occasionare la mia remozione dal Ministero, aveva reso un cattivo servigio alla cosa publica.
Finalmente io consideravo che la carafa essendo crepata, come suol dirsi, in altre mani che le mie (benchè ciò fosse un effetto delle massime fissate fin dal mio tempo e sarebbe seguito nelle mie mani medesime, se fossi rimasto nel posto), naturalmente ne seguiva che chi non si desse la pena di approfondire la cosa e si arrestasse alla sola materialità dello scoppio della ultima rottura in mano altrui, e non mia, doveva pensare che la mia remozione dal Ministero non fosse stata un bene, benchè fosse falsissimo che, restando io nel posto, non sarebbe accaduto tutto quello che era accaduto.
Queste considerazioni, che nascevano dall'essenza della natura umana, mi avevano fatto temere, come ho detto, un buon ricevimento e fu con questa spina nel cuore, che, dopo 6 giorni dal mio arrivo a Parigi, io andai alla sua udienza.
Eravamo 5 Cardinali, dei quali si faceva dal Card. Fesch la presentazione all'Imperadore in quel giorno, perché eravamo gli ultimi arrivati in quella settimana, cioè il Card. di Pietro, ch'era giunto con me, e i Cardinali Pignattelli, Saluzzo e Despuig, che. erano giunti quasi contemporaneamente. Il Card. Fesch ci aveva collocati soli da una parte, formando una mezza luna. Tutti gli altri Cardinali erano dall'altro lato e poi seguivano tutti i Grandi della Corte, i Ministri, i Re, i Principi, le Principesse e Regine e altri Gran Signori.
Ecco che giunge l’Imperadore. Il Card. Fesch gli si fa innanzi e incomincia dal presentargli il primo, ch’era il Card. Pignattelli (stando noi 5 per ordine di preminenza di Cardinalato) e, nel presentarglielo, dice: «questo è il Card. Pignattelli».
L’Imperadore risponde: «Napolitano» e senza nulla dirgli passa innanzi.
Il Card. Fesch presentando il secondo dice: «il Card. di Pietro», e l’Imperadore si ferma un poco e gli dice: «Lei è ingrassato, mi ricordo di averlo veduto qui col Papa nella occasione della mia Incoronazione».
Passando innanzi senza aspettare risposta, il Card. Fesch presenta il terzo, dicendo: «il Card. Saluzzo». L'Imperadore risponde: «Napolitano» e passa innanzi.
Il Card. Fesch presenta il quarto e dice: «il Card. Despuig» e l’Imperadore rispondendo: «Spagnolo», egli pieno di timore, quasi negando la patria (mi è impossibile di ritenere a questo tratto la penna) replica: «di Majorca».
L'Imperadore passa innanzi e, giunto a me, senza aspettare che il Card. Fesch mi nominasse, dice: «Oh. Card. Consalvi, come siete smagrito! quasi non vi avrei riconosciuto» e, così dicendo con aria di molta bontà, si ferma aspettando la mia risposta.
Io dissi allora, quasi per rendere ragione del dimagramento: «Mi sono cresciuti gli anni, essendone scorsi ormai 10 dacchè ebbi l'onore di inchinare V. M.».
Egli allora disse: «è vero, sono quasi 10 anni che veniste per il Concordato. Lo facemmo in questa stanza medesima. Ma a che è servito? Tutto è andato in fumo. Roma ha voluto perder tutto. Bisogna però confessarlo. Noi abbiamo avuto il torto nel farvi balzare dal Ministero. Se voi aveste continuato ad essere in posto, le cose non sarebbero andate tanto innanzi.».
Questa ultima proposizione mi fece quasi perdere il lume degli occhi per il dolore. Per quanto io avessi temuto di essere ben ricevuto, non avevo però mai creduto che egli fosse per giungere a tanto.
Giuro che se non avessi letto il seguito, io non ci sarei mai arrivato!
Se potè piacermi – continua – ch'egli attestasse in publico di essere stato la causa della mia remozione dal Ministero, fui tratto da quella proposizione, con cui disse che se io fossi rimasto in posto le cose non sarebbero andate tanto innanzi. Io temei, che lasciando passare sotto silenzio quella proposizione, il publico potesse arguire che veramente sarebbe stato così e che, per conseguenza, io avrei traditi i miei doveri, giacchè questa appunto n'era la conseguenza.
Penetrato da questo timore, io non consultai più che il mio onore e la verità. Quindi, anzi che rispondere una parola di sensibilità e ringraziamento alla bontà che dimostrava per me e ad una confessione tanto straordinaria e tanto significante nel di lui carattere, qual'era stata quella di accusare il suo torto di avermi fatto balzare dal Ministero, mi trovai nella dura necessità di rispondere ad una proposizione, che dal di lui canto appariva sommamente obligante, con una replica fortissima e significantissima, che fu la seguente: «Sire, se io fossi rimasto nel posto, avrei fatto il mio dovere».
Egli mi guardò fisso e nulla rispose e, staccandosi da me, incominciò un discorso lunghissimo girando in su e in giù per tutto lo spazio della mezza luna che noi formavamo e dicendo infinite cose contro la condotta del Papa e di Roma, per non aver aderito ai di lui voleri ed essersi ricusato ad entrare nel suo sistema, le quali cose non sono da riferirsi in questo scritto, e, dopo aver parlato così per non breve tempo, trovandosi vicino a me nell'andare in su e in giù che faceva, si arrestò e mi disse per la seconda volta: «No, che se voi foste rimasto in posto, le cose non sarebbero andate innanzi».
Per quanto potesse essere stato sufficiente che io avessi già contradetto una volta questa sua proposizione, io animato dai medesimi motivi che ho detto di sopra, osai contradirlo anche un'altra volta e gli risposi: «V. M. creda pure che io avrei fatto il mio dovere».
Egli tornò a guardarmi fisso e, senza nulla replicarmi, si distaccò da me e tornò ad andare in su e in giù, proseguendo lo stesso discorso e facendo le stesse lagnanze della condotta di Roma verso di lui e della mancanza in Roma dei grandi uomini, che l'avevano illustrata nei passati tempi, e qui, diriggendo il discorso al Card. di Pietro, che era alla altra estremità della mezza luna, cioè al principio, come io ero al termine, disse per la terza volta: «Se il Card. Consalvi fosse rimasto nel posto, le cose non sarebbero forse andate tanto innanzzi».
Sentendogli ciò ripetere per la terza volta, io non dirò il mio coraggio, ma la mia poca prudenza, in quella occasione e un quasi dirò eccessivo zelo del mio onore mi fecero trascorrere veramente troppo innanzi. Io avevo già contradetta due volte quella sua proposizione, egli allora non parlava con me, come nelle due volte precedenti, egli era da me assai lontano. Ma tutto ciò non ostante, all'udire per la terza volta quella proposizione, io distaccandomi dal mio posto ed avanzandomi fino a lui, ch'era nell'altra estremità, lo abbordai e gli dissi: «Sire, io ho già detto a V. M., che se io fossi rimasto nel posto, io avrei fatto sicuramente il mio dovere».
A questa dirò così, trina professione di fede, egli allora non più si contenne, ma guardandomi prima fisso, poi proruppe in queste parole: «Oh! io dico che i1 vostro dovere non vi avrebbe permesso di sacrificare lo spirituale al temporale», volendo dire, secondo la sua idea, che io avrei aderito ai suoi voleri, piuttosto che esporre li interessi della religione ai pericoli della di lui rottura con Roma».
E, ciò detto, mi voltò le spalle, lo che mi obligò a tornare al mio posto. Egli dopo detta qualche parola coi Cardinali che erano dall'altro lato, cioè dimandando loro se avevano udito il discorso, tornò a noi 5 e, tenendosi vicino al Card. di Pietro, disse che adesso che quasi tutto intiero il Collegio dei Cardinali era in Parigi, ci ponessimo a considerare se avevamo qualche cosa da proporre, o piano da presentare per l’andamento delle cose della Chiesa e che, a tale effetto, ci radunassimo, o tutti, o almeno i principali fra noi, spiegando poco dopo ciò che intendeva per i principali, cioè i più versati delle cose teologiche, come si rilevò dalla antitesi, che venne a formare con le parole seguenti, dicendo al Card. di Pietro, a cui diriggeva questo discorso: «fate però che nel numero ci sia anche il Card. Consalvi, il quale se non sa la Teologia, come io suppongo, conosce però e sa bene la scienza della politica», e si ritirò.
Appena si sparse per Parigi l'esito di quella udienza e si conobbe la risposta da me per 3 volte data alla proposizione dell'Imperadore, questo fu il tema di tutti i discorsi, nè a me conviene su di ciò estendermi di più.”
Egli continua spiegando del perché non ricusò l’incarico.
La commissione data dall'Imperadore di presentargli un piano, di cui si è parlato di sopra, divenne per me in particolare un nuovo motivo di amarezze e di pericoli. La ragione, per cui fui più degli altri compromesso, fu perché, essendosi compreso l'occulto scopo di quella ricerca (che era quello di far fare dai Cardinali un contro altare al Papa, o col piano da essi fatto, il quale sarebbe stato destramente diretto e regolato da chi avrebbe agito per l'Imperadore, o forzar la mano al Papa per aderirvi e rifondere in lui tutta la colpa di agire anche contro il voto di tutto il suo stesso Collegio), niuno volle mettersi alla testa per evitare di trattare col Card. Fesch e notificargli quella risposta, che poi si diede, la quale si prevedeva dovere riescire sommamente disgradevole, e perciò declinando ciascuno la cosa, si attaccarono tutti a dire che tale incarico toccava a quei due, che erano stati nominati dall'Imperadore, cioè il Card. di Pietro, ed io. Ma, quanto a me, ciò era falso, perché l'Imperadore aveva veramente incaricato il solo Card. di Pietro e non aveva nominato me, se non perché fossi compreso fra quei principali, che egli doveva radunare per formare il piano, se non voleva adunar tutti.
Benchè io non tralasciassi di ciò rilevare a tutti quelli, che, per declinare essi stessi la commissione che prevedevano funesta, mi mettevano innanzi con quel falso pretesto, pure non lo ricusai e mi è testimonio il Cielo che lo feci per il retto fine che non cadesse in qualche mano che fosse meno ferma della mia (benchè lo fosse poco anch'essa per l’abilità, ma lo era molto per la buona volontà), preferendo mille volte di esporre me stesso, che la cosa publica e il servigio del Papa e della S. Sede. Nè m'ingannai nel mio prognostico.
Il Card. di Pietro ed io ci dividemmo il giro dei Cardinali, poi formammo la risposta, mettendola in iscritto, la di cui sostanza era che i Cardinali divisi dal loro Capo non potevano, nè dovevano formar piani, né fare proposizioni e molto meno sopra oggetti, su dei quali il Papa aveva già decisamente manifestati i suoi sentimenti, e che perciò altro non rimaneva ad essi che unire i loro voti a quelli di Sua Santità e supplicare S. M. I. di esaudirli.
Questa risposta fu da noi due portata al Card. Fesch. Egli fu mal contento di quella risposta. Molto più perciò ne fu mal contento l'Imperadore che, nella rabbia di vedere andato a vuoto il suo disegno, gittò, al riferire del Card. Fesch, quella carta in più pezzi nel fuoco.
Ma il Card. Fesch, o per un resto della antica avversione contro di me, o per una falsa opinione, fomentata dalla suggestione di qualcuno, che, non avendo il coraggio di resistergli sul volto quando egli andò poi a querelarsi di quella risposta con molti Cardinali, fu ben contento di rifondere su di me la odiosità o la colpa, andò dicendo che io ero stato la causa che l'affare non era riescito, avendo mal riferito i di lui detti ai Cardinali, e così mi trovai sempre più compromesso con l'Imperadore medesimo.
Insomma, Fesch e Napoleone lo accusavano ed i colleghi Cardinali se ne lavavano le mani.