1798, il “Patriota” Consalvi

1798
IL “PATRIOTA” CONSALVI
Non saprei proprio come intitolare questo capitolo. Vorrei mettere in risalto quella parte di personalità del Cardinale, pochissimo sinora discussa. Anzi direi proprio per niente!
Certo, il sottoscritto è avvantaggiato dall’aver ritrovato delle lettere personali del Cardinale scritte allo zio Girolamo Carandini, nelle quali si comprende benissimo il suo ruolo avuto dal momento dell’arresto di Pio VI sino alla convocazione del Conclave a Venezia.
Ma, anche leggendo quanto da lui scritto nelle sue memorie, penso che si sarebbe potuto comunque intuirne qualcosa.
Sbarcato a Livorno circa i 25 o 26 di agosto, volai subito a Firenze. È facile imaginare, che il mio primo pensiero fu di procurarmi il mezzo di essere ai piedi del Papa. Bisognava molta circospezzione e molto giudizio per eludere la vigilanza del ministro francese colà residente. Lasciai passare alcuni giorni per non dare troppo sull’occhio se avessi fatto quel gran passo appena giunto. Procurai di ottenere un tacito assenso del ministro toscano, che avevo bisogno di menager, nella speranza di poter poi rimanere presso il Papa, se la cosa mi riescisse. Trovai però nel ministro anzidetto le più dure maniere e il più villano rifiuto. Mi fu allora necessario far la cosa come per sorpresa, giacché io volevo vedere il Papa ad ogni costo e provargli almeno la mia buona volontà.
Improvisamente dunque colsi il giorno e l’ora, che, era dei più a proposito, e mi condussi alla Certosa, in distanza di 3 miglia da Firenze, dove era detenuto. Quando fui ai piedi di quella collina, mi è impossibile di esprimere quali moti eccitasse nel mio cuore la idea di rivedere a momenti quel mio benefattore e sovrano, che aveva avuta tanta bontà per me, e la considerazione del misero stato a cui vedevo ridotto quel Pio VI, che avevo veduto nel colmo della grandezza. Ogni passo che avanzavo per giungere alla sua presenza, faceva provare una sempre maggior commozione al mio cuore. La povertà e la solitudine di quelle mura, le due o tre misere persone che formavano il suo servizio, mi cavavano dagli occhi il pianto. Ma introdotto finalmente alla di lui presenza, oh Dio, qual piena di affetti non oppresse quasi il mio cuore
Era assiso al tavolino e quella positura non manifestando il suo debole che era nelle gambe, delle quali aveva quasi del tutto perduto l’uso (se non era sostenuto da due forti appoggi che lo reggessero sotto le braccia), la bellezza e la maestà del volto appariva senza differenza da quella di Roma e ispirava a un tempo la massima venerazione e il più caldo affetto. Mi gittai ai suoi piedi, bagnandoli di lagrime, e gli narrai quanto mi costava il rivederlo e quanto viva smania avevo di restare al suo fianco per servirlo, assisterlo e dividere con lui la sua sorte, al qual’oggetto dissi che avrei tentato tutti i mezzi possibili. Mi sarebbe impossibile qui descrivere quale amorosa accoglienza mi fece, quanto gradì il mio attaccamento alla sua Sacra Persona, quali cose mi disse su Roma, Napoli, Vienna, la Francia, quali sulla condotta di quelli che aveva dovuto credere i più attaccati a se e i più fedeli.
Non lasciò nemmeno di dirmi che credeva impossibile che io ottenessi il permesso di rimanere presso di lui. Risposi che niente lasciarei intentato per riescirvi e, dopo un’ora di udienza, che mi colmò insieme di consolazione e di tristezza e di sempre maggiore venerazione e accrebbe, se era possibile, il mio attaccamento, mi congedò. Tornato a Firenze, feci un segreto a tutti di quella visita e, per allontanare maggiormente i sospetti, chiesi il permesso di andare a Siena a vedere la casa Patrizii, che vi si era condotta da Roma. Non lo ottenni che per 15 giorni, ciò che mi fu di infelicissimo augurio per la rimanenza in Firenze che volevo tentare di ottenere poi. Andato a Siena, appena spirati i 15 giorni, quel commissario Gran Ducale mi obligò a partire e lasciai con dolore la compagnia di quella famiglia mia amicissima.
Tornato a Firenze, vi passai altri 15 giorni, nei quali che non feci, che non dissi, che non tentai, direttamente e indirettamente, per ottenere ciò che sì ardentemente bramavo? Una espressa domanda del Ministro di Francia al primo Ministro del Gran Duca perché mi si facesse partire senza ritardo, rende inutili tutti i miei sforzi ed estinse affatto ogni mia speranza. Mi fu forza partire, per andare a dimorare in Venezia, come, nel caso di non potere ottenere il mio intento, mi ero proposto.
Tutto ciò che potei fare, furtivamente però e con molto rischio, fu una seconda gita alla Certosa, per rendere conto al Papa dei sforzi da me fatti senza frutto, ribaciargli i piedi e prendere la sua ultima benedizzione. Fui accolto con la stessa tenera bontà. Quanto ebbe di dispiacere che non mi fosse riescito di rimanere presso di lui, altrettanto non ne fu sorpreso. In una intiera ora di udienza, che pur mi diede, mi colmò di ogni sorta di grazie e dei più salutari avvisi di rassegnazione, di buona condotta e di fortezza d’animo, di cui i suoi discorsi e il suo contegno davano luminosissimi esempii. Io lo trovai tanto grande quanto era in Roma in mezzo alle felicità, anzi assai più. Nel commettermi di salutargli il Duca Braschi suo nipote, dimorante in Venezia, che si aveva avuta poco prima la crudeltà di staccargli dal fianco in quella Certosa medesima, io giurai ai suoi piedi, che in qualunque stato, in qualunque tempo, in qualunque cambiamento di cose, io avrei considerato come il più sacro mio debito quello di essere attaccato alla di lui famiglia al segno di essere per la medesima (mi escì nell’entusiasmo di quel momento questa espressione) un altro lui stesso. Io mi lusingo, nelle circostanze nelle quali 1’ho potuto, di non aver mancato alla mia parola.
Di fatto, cos’era accaduto? Lo Stato Pontificio non esisteva più e Pio VI viene inviato prigioniero a Firenze.
Contemporaneamente, in tutto lo Stato Pontificio e nel resto d’Italia, si viene a creare di riflesso una rete di contatti fedeli allo Stato Pontificio, in opposizione agli invasori ed alla “Rivoluzione”.
Era necessario andare a Firenze a prendere ordini dal Papa, ma, soprattutto, la cosa più importante era rendersi conto di persona della situazione di salute del Pontefice.
Questo era il vero compito dell’ex Assessore militare Mons. Ercole Consalvi.
Molto conosciuto è il Consalvi diplomatico, ma non quello, diciamo, “partigiano”. L’impressione, leggendo le sue lettere allo zio Girolamo, è che sia proprio lui ad organizzare questa “rete” ed a preparare i futuri eventi veneziani, aspettando quella notizia che, data la situazione da lui stesso constatata nei suoi due incontri alla Certosa di Firenze, non tarderà ad arrivare: la morte di Pio VI.
Le prove di questa sua attività sono, come ho detto prima, nelle lettere che egli inviava regolarmente allo zio Girolamo, addirittura firmandone alcune con nomi di fantasia. Quello che non capisco è il perché lo zio non le abbia tutte distrutte man mano che le riceveva. Buon per noi!
Nella sua lettera del 31 agosto 1798, il giovane “partigiano”, mentre si trovava a Siena nella Casa Patrizi insieme al cugino Saverio Parisani, ci colpisce per la sua sicurezza e decisionismo.
Erano passati solo 5 mesi e mezzo da quando fu proclamata la Repubblica Romana (15 agosto 1798), eppure, così scrive allo zio Girolamo, fratello del Cardinale Filippo:
Le dico che io ho già scritto all’amico di Vicenza (ovvero il Cardinale Filippo Carandini), di cui ho molti argomenti per altre parti, che non pensi nemmen per ombra a rimpatriare, onde non so propriamente capire, come lo abbia fatto credere a Lei.”
Ha già scritto allo zio Cardinale, dice, rimproverandolo ed invitandolo a non muoversi da Vicenza, attendendo gli eventi, che lui stesso provvederà poi a comunicargli.
Insomma, in questa lettera, che darei chissà cosa per avere, dimostra un carattere forte ed abituato a comandare, ma, soprattutto, dimostra di avere il consenso degli altri Cardinali e dello stesso Pontefice. Altrimenti con quale potere poteva “ordinare“ allo zio Cardinale di non muoversi assolutamente da Vicenza?
Io parto di qui, ai 3 dell’entrare per Firenze, dove starò fino ai 15 all’incirca, onde se ella volesse scrivermi colà, scriva pure direttamente al Sig. Livio Ferli senza fare alla direzione dentro, e così potrà fare anche in seguito, quando io sarò negli stati veneti. Io penso di andare direttamente a Venezia per diverse ragioni, e dopo pochi giorni anderò a Vicenza a trovare l’amico.
Ella conosce bene che le circostanze attuali, col le generali, che le mie particolari, spingono in una misura, e sacrifizio. Le porgo i saluti di Saverio, e di questi signori, che me lo impongono con la massima premura. Essi pure vorrebbero ritenermi qui fissamente, e lascio imaginare quanto volentieri ci pensi, ma le medesime circostanze nominate mi impongono questo sacrifizio.”
Non c’è bisogno di commentare ciò che ho messo in neretto. Livio Ferli, i Patrizi, il cugino Saverio Parisani, il fratello Andrea da Roma per lui, più altri uomini di fiducia degli altri Cardinali contribuiscono a formare questa rete di oppositori.
Esaltato dagli storici soprattutto come il grande diplomatico del Congresso di Vienna, Ercole Consalvi viene assolutamente ignorato dagli stessi nella sua partecipazione attiva all’opposizione alla rivoluzione. Eppure ce lo racconta chiaramente egli stesso. Basta leggere le sue memorie e non c’è bisogno neanche di leggere tra le righe.
Pio VI era stato trasferito alla Certosa di Firenze situata in una solitudine a tre miglia di distanza dalla città. Prima egli prova a chiedere il permesso, sperando in un tacito assenso del ministro toscano evitando così di presentare la richiesta direttamente al ministro francese colà residente.
Avutane però risposta negativa e prevedendo un sollecito avviso di espulsione, decide subito di prendere delle iniziative.
Ed ecco di nuovo quel Consalvi che durante il periodo in cui era Assessore militare si era guadagnato l’appellativo di Diavolo. Insieme ai suoi famigli, a Livio Ferli e ad altri decide di improvvisare. Non credo che vi siano stati tentativi di fargli cambiare idea. Tutti collaboravano all’unisono.
Il luogo era isolato e, quindi, potevano esserci dei vantaggi. Studiata la situazione ed avvertito il Papa, si presenta di notte a distanza di sicurezza con almeno uno dei suoi famigli e, lasciati i cavalli, aspetta il segnale convenuto per avvicinarsi alla Certosa.
Non si pensi che sia mia fantasia. Lo dice lui stesso: improvisamente dunque colsi il giorno e l’ora. Più chiaro di così! La cosa interessante è che non si è limitato a farlo una volta sola, ma furtivamente però e con molto rischio ci provò di nuovo con successo e con scorno del ministro francese.
Quante volte abbiamo visto queste scene in innumerevoli film d’azione. Ebbene, questo semplice prelato, dimostra di conoscere il fatto suo, ma, soprattutto, di non aver paura delle possibili conseguenze, nel caso fosse stato scoperto. Sapeva prendere delle decisioni e sapeva rischiare, perfettamente coadiuvato dai sui famigli.
Altre due volte ammireremo “questo” Consalvi. Come quando, subito dopo il Congresso di Vienna, lo vediamo a cavallo che di corsa si dirige verso Parigi, superando per strada il Della Genga che vi si portava tranquillamente in carrozza.
E, poi, ancora anni dopo, quando, caduto Napoleone, e con una quindicina di anni in più, parte dal luogo di prigionia in Francia, stanco di aspettare il passaporto, senza incertezze e senza indugio per l’Italia, con la sola berretta rossa che sarà il mio passaporto. Disse proprio così!
Questo è il mio antenato che ammiro, il politico ed il diplomatico lo lascio agli storici, che ne sanno più del sottoscritto.
Ma torniamo alla Certosa di Firenze. Arrivato finalmente alla presenza di Pio VI, un colpo d’occhio gli fa subito capire che le notizie che egli porterà agli altri Cardinali, che via via si andranno a riunire a Venezia, non saranno buone. Le gambe, delle quali aveva quasi del tutto perduto l’uso (se non era sostenuto da due forti appoggi che lo reggessero sotto le braccia) ormai non lo sostenevano più. Si capiva che ormai era questione solo di tempo.
Tristissimo fu l’addio. Si lasceranno consapevoli che non si rivedranno più. Ma Pio VI farà il suo dovere fino in fondo, dando al Consalvi gli ultimi ordini da trasmettere al Sacro Collegio, soprattutto per il Conclave, che doveva essere, secondo il suo volere, aperto il più presto possibile e lontano da Roma.
Putroppo per i due, su espressa domanda del Ministro di Francia al primo Ministro del Gran Duca, i quali molto probabilmente erano venuti a conoscenza delle attività clandestine del Consalvi, egli fu obbligato a partire subito, cosa che avrebbe sicuramente fatto comunque, perché le ragioni di Stato, su ordine dello stesso Pontefice Pio VI, erano più impellenti.
Salta di nuovo a cavallo e, sempre con i suoi famigli, si dirige a Venezia, per andare poi a trovare direttamente l’amico di Vicenza, a cui portare personalmente gli ordini di Pio VI. Da Venezia tesserà contatti con gli altri Cardinali e con il Cardinale di York, che ancora si trovava a Napoli.
Fortunatamente, di questa sua, diciamo “attività clandestina”, ne ricevo improvvisamente altra conferma, via e-mail, da un amico studioso, il quale così mi scrive:
Nel periodo della prigionia di Pio VI e della dispersione del Sacro Collegio, il Consalvi è nominato segretario dei cardinali residenti a Venezia e dunque della parte più consistente.
Ed aggiunge: “Le mie informazioni vengono direttamente dagli Archivi della Santa Sede. Gli archivi relativi al periodo del Consalvi sono tutti consultabili in Vaticano. Ovviamente non sono pubblici come in Italia, ma aperti solo per gli studiosi”.
Mi torna in mente una strana affermazione di Virginio Princivalle, un archivista del Vaticano, anno 1905, che ho riportato proprio alla fine di questa ricerca nella sezione post scriptum, e che sarebbe da approfondire.
Sono molto soddisfatto di questa informazione inviatami dal mio amico. Infatti, che il giovane Prelato Consalvi fosse stato nominato segretario dei cardinali residenti a Venezia, non si trova nelle sue memorie.
Nelle quali, veniamo a sapere che il fratello Andrea, corso a Roma nel momento del pericolo, non era più riuscito ad espatriare.
Io dimorai tranquillamente in Venezia, salva però l’angoscia continua in cui mi teneva la tanto pericolosa dimora del mio caro fratello in Roma, al quale più non era permesso di ripartirne.”
Da lui veniamo anche a sapere in che modo i suoi beni furono confiscati:
I miei beni non erano più miei. Dopo essermi stati confiscati dal Governo Romano, come emigrato, alle rappresentanze fatte sulla falsità di tale imputazione, facendo constare della mia deportazione, si fecero due decreti, col primo dei quali mi si restituivano i beni come non emigrato e col secondo mi si riconfiscavano, come nemico della Romana Republica.”
Decreti che io ho trovati per puro caso, dato che non li stavo punto cercando, e che inserisco subito qui di seguito.